Poesia

 Per secoli (almeno fino al Cinquecento) la rima è stata una degli elementi portanti della nostra poesia. Si può dire, anzi, che la poesia era proprio l’arte di rimare (nella poesia greca e latina essa ha un ruolo marginale); tanto che Dante nella Vita nova, per definirsi poeta, dice di essere colui che ha appreso “l’arte del dire parole per rima”.

Nel Medioevo, poi, essa aveva una vera e propria funzione demarcativa – favoriva, cioè, “la percezione della divisione in versi” (Beltrami 1996: 75) – dal momento che i versi venivano scritti di seguito come in prosa.

Per rima si intende l’identità di suono della parte finale di due o più parole dall’ultima vocale accentata:

vITA:smarrITA

Essa viene convenzionalmente indicata con una lettera maiuscola dell’alfabeto:

Tanto gentile e tanto onesta pare               A

La donna mia quand’ella altrui saluta        B

Ch’ogne lingua deven tremando muta,     B

E li occhi non l’ardiscan di guardare          A

(Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, 1:4)

 

Si definisce perfetta quando l’identità di suono è totale. Si definisce imperfetta quando, invece, sono identiche le sole vocali (in questo caso si parla di assonanza, dice:venisse); oppure le sole consonanti (in questo caso si parla di consonanza,  colle:elle).

Nella tradizione italiana troviamo altre forme di rime imperfette. Il caso più importante è quello della rima siciliana, quella in cui E chiusa rima con I e O chiusa con U.

Tale rima ha una motivazione curiosa. Il siciliano presenta solo cinque vocali (A, E, I, O, U), mentre il toscano – e quindi l’italiano – ne ha sette (A, E aperta, E chiusa, I, O aperta, O chiusa, U). Quando – verso la fine del XIII secolo – autori toscani tradussero le opere della cosiddetta scuola siciliana, si trovarono di fronte all’impossibilità di rispettare la perfezione delle rime senza tradire il testo. Decisero di rispettare la traduzione, per cui – giusto per fare un esempio – termini quali ‘taciri’ e ‘diri’ (che formavano una rima perfetta) diventarono ‘tacere’ e ‘dire’ (rima imperfetta). Dante (lo dimostra nel De volgari eloquentia) e i suoi contemporanei conoscevano la poesia siciliana solo nella sua forma toscanizzata; essi erano convinti che i siciliani scrivessero in tale lingua  e considerarono una loro scelta culturale le rime é:i e ó:u. Successivamente i tipografi hanno pensato ad un errore dei copisti per cui per un eccesso di ipercorrettismo sono intervenuti per ristabilire la rima perfetta. La rima voi:altrui che, quindi i contemporanei di Dante sentivano corretta è stata corretta in vui:altrui. In tale forma ne troviamo traccia anche in Manzoni (famosa la rima nui.lui nel Cinque maggio).

(Per la cronaca solo nel Cinquecento venne ritrovato uno dei rari esempi di testo in lingua originale, Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro).

Oltre che alle rime perfette e imperfette, esistono numerosi altri casi in cui la costruzione della rima è molto più complessa. Tali rime si definiscono tecniche, vediamo le più importanti:

Rima ricca, è quella che ingloba anche una o più lettere antecedenti la vocali toniche:

Secondo:giocondo (Petrarca, Rvf. 94, 5:8)

Rima derivativa, quando una delle due parole che rimano deriva dall’altra:

Degna:disdegna (Petrarca, Rvf. 5, 12:14)

Rima inclusiva, è una particolare forma di rima derivativa, si ottiene quando la parola in rima è contenuta foneticamente nell’altra pur nona vendo rapporti di derivazioni:

Arco:varco (Petrarca, Rvf. 3, 11:14)

Rima equivoca, quando abbiamo identità di suoni ma non di significato delle parole in rima:

Sole (sostantivo):sole (aggettivo) (Petrarca, Rvf. 18, 11:14)

Rima identica, quando rimano due parole che hanno identico suono e significato. Nella Commedia, Dante fa rimare, per esempio, Cristo solo con se stesso.

Rima equivoca contraffatta, quando abbiamo una concordanza di suoni ma non di grafia tra una parola e altre due:

m’ai:mai (Petrarca, Rvf. 97, 1:4)

Rima composta (o franta), la rima è ottenuta unendo due parole:

Parte:par te

Rima per l’occhio, quando abbiamo un’identità grafica ma non fonica:

Mando:comandò (Francesco da Barberino, Doc.Am., I, p.32)

Rima in tmesi, quando la parola a fine verso viene divisa e la parte conclusiva mandata a capo; questo accade soprattutto con gli avverbi in –mente:

 

Così quelle carole differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.

(Dante, Paradiso, XXIV, 16-18)

 

Rima ipermetra, quando si ottiene la rima sopprimendo l’ultima sillaba di un verso volutamente più lungo del normale (la sillaba aggiuntiva normalmente si conta nel verso successivo). In sostanza si fa rimare una parola piana con una sdrucciola:

Esali:ali(to) 
(Pascoli, Il sogno della Vrergine II, 13:15)

 

Più in generale possiamo distinguere le rime in facili e difficili. Rientrano nel primo caso quelle di scarso impegno stilistico, quelle cioè “per cui sono disponibili nella lingua molte parole” (Beltrami 1996:77). Rime facili sono le desinenziali (tra parole che hanno uguale desinenza, come gli infiniti dei verbi) e le suffissali (tra parole che hanno lo stesso suffisso, come per gli avverbi in – mente).

Rime difficili sono quelle per cui la lingua non dispone di molte possibilità (per esempio l’uscita in –oppio nella Commedia, Purgatorio XVI 53:55:57 scoppio:doppio:accoppio).

La posizione delle rime:

Normalmente la rima si ottiene tra due parole a fine verso. Nella pratica poetica, però, possiamo anche imbatterci in altri due tipi di situazione:

– Rima interna: quando rima una parola a fine verso con un’altra all’interno di uno dei versi seguenti.

– Rima al mezzo: è una forma di rima interna, ma in questo caso la parola di fine verso rima con parola posta alla fine dell’emistichio successivo.

Veniamo, infine, alla posizione dei versi che rimano. Ci troviamo essenzialmente di fronte a quattro possibilità:

– Rima baciata (o a coppie) ha lo schema AABB ed è tipico del distico:

 

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto

(Pascoli, La cavalla storna, 1:2)

 

– Rima alternata ha lo schema ABAB ed è tipica dell’ottava:

 

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto

(Ariosto, L’Orlando furioso, I 1:6)

 

– Rima incrociata ha lo schema ABBA ed è tipica delle quartine dei sonetti:

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi non l’ardiscan di guardare.

(Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, 1:4)

 

– Rima incatenata ha Schema ABA BCB ed è lo schema della terzina dantesca:

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

esta selva selvaggia e aspra e forte

che nel pensier rinova la paura!

(Dante, Inferno I, 1:6)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *