Poesia

La metrica è insieme alla ritmica uno degli elementi caratterizzanti la lingua poetica. In realtà essi cambiano notevolmente a seconda del tempo e della lingua, per cui la metrica greca è diversa da quella latina, così come quella latina è diversa da quella volgare del medioevo. Possiamo comunque abbozzare una definizione.

Il metrica è da una parte “l’insieme di regole e leggi che governano il testo poetico come arte del verso”, dall’altro “l’insieme dei metri usati da un autore, o da una corrente o epoca” (Bertone 1999:119). Ogni tradizione letteraria possiede, quindi, i suoi metri; nella metrica classica, per esempio, “è ciascuna unità di uno o due piedi che costituisce il verso” (Bertone 1999:127). Ne deriva che la metrica è l’insieme di elementi che sono stati considerati obbligatori al momento della scrittura del testo. Per esempio, un sonetto deve presentare questa metrica: 14 versi endecasillabi perfetti (vale a dire con accentazione corretta) e schema obbligatorio delle rime.

Strettamente connesso al concetto di metro è quello di ritmo che è il disporsi nel tempo di elementi riconoscibili e significativi come il ritorno in determinate posizioni di sillabe toniche, di suoni uguali (rime, allitterazioni), di misure sillabiche.

Ogni rima della poesia si chiama verso, parola che deriva dal latino versus (volgere, rivoltare), perché torna indietro con l’a capo. Mentre prosa deriva dal latino prorsus (dritto), che prosegue di continuo in linea retta.

Ogni gruppo di versi che si ripetono più volte con regolarità si chiama strofa.

Per esempio un sonetto è una composizione poetica formata da 14 versi endecasillabi, divisi in due strofe di quattro versi (quartine) e due strofe di tre versi (terzine).

Il verso italiano è definito da due elementi: il numero di sillabe metriche e la posizione degli accenti.

Vediamo nel dettaglio questi due aspetti:

1) La sillaba metrica e il suo conteggio.

Il conto delle sillabe è facile quando le vocali sono separate dalle consonanti, diventa più complesso quando abbiamo l’incontro tra due o più vocali. In grammatica si studia che le vocali I e U (quando non sono accentate) si definiscono deboli. Quando sono vicine ad altre vocali si uniscono ad esse per formare un’unica sillaba (pie-tà). Le altre vocali, invece, possono formare sillaba da sole (pa-e-se). Quando due o tre vocali vicine stanno nella medesima sillaba abbiamo un dittongo o un trittongo:

pie-tà              “pie” dittongo

a-iuo-la           “iuo” trittongo

quando appartengono a sillabe diverse abbiamo lo iato:

pa-e-se                       iato

In poesia, invece, quando due o tre vocali si fondono in un’unica sillaba si dice che abbiamo una sineresi, quando invece due vocali contigue stanno in sillabe diverse abbiamo una dieresi.

Mentre a livello grammaticale è facile – data la regola esposta sopra – stabilire se ci si trova di fronte a dittongo o iato; non è sempre facile stabilire se abbiamo sineresi o dieresi a livello poetico. Il poeta può, per ragioni metriche, infatti “sentire” in un unico suono due vocali che altrimenti apparterebbero a due sillabe diverse. Inoltre, solo nell’Ottocento il poeta ha avvertito la necessità di indicare la dieresi con due puntini sovrapposti.

Prendiamo a mo’ d’esempio la parola ‘traviato’.

A livello grammaticale essa è formata da tre sillabe dal momento che la I è una vocale debole e si lega quindi alla A: tra – via – to.

In Petrarca (Rvf 6,1), invece, è composta da 4 sillabe metriche:

Sì  traviato è’l  folle mi’ desio

Anche due vocali che si incontrano tra la fine di parola e l’inizio di parola contigua possono fondersi in un’unica sillaba (in questo caso abbiamo una sinalefe), oppure restare separate (in questo caso abbiamo una dilalefe).

Vediamo qualche esempio.

Caso di sinalefe:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura (Inferno, I, 4)

A livello grammaticale ci troviamo di fronte ad un verso composto da 13 sillabe:

ahi – quan – to – a – dir – qual – e – ra – è – co – sa – du – ra

a livello metrico, invece abbiamo un perfetto endecasillabo grazie alla sinalefe:

ahi – quan – toa – dir – qual – e – raè – co – sa – du – ra

Caso di dialefe:

tant’era pien di sonno a quel punto (Inferno I, 10)

resta un verso di undici sillabe sia a livello grammaticale che metrico dal momento che la O di sonno non si lega alla preposizione A successiva.

Anche in questo caso è impossibile stabile una regola precisa che determini la presenza di dialefe o di sinalefe (chi volesse approfondire l’argomento può consultare Beltrami e Bertone).

2) La posizione degli accenti

Ma oltre che dal numero delle sillabe, il verso italiano si definisce anche in rapporto agli accenti (la metrica italiana è appunto chiamata sillabico-accentuativa). Per cui ogni verso deve avere gli accenti delle parole posti nella medesima posizione.

L’accento, in ogni modo, più importante è l’ultimo. Nell’endecasillabo l’ultimo accento, per esempio, deve essere posto sulla decima sillaba:

nel – mez – zo – del – cam – min – di – no – stra – vì -ta

questo vuol dire che se l’ultima parola è tronca noi avremo un verso composto da dieci sillabe ma che si considera comunque endecasillabo:

van – da – San – Gui – do in – du – pli – ce – fi – làr

allo stesso modo se l’ultima parola è sdrucciola o bisdrucciola avremo un endecasillabo di dodici o tredici versi:

Già – non – com – pie – di – tal – con – si – glio – rèn –de -[re]

I versi più usati nella poesia italiana – oltre all’endecasillabo, assolutamente predominante – sono il novenario (accento finale nell’ottava sillaba) e il settenario (accento finale nella sesta sillaba).

Siccome la gran parte delle parole italiane sono piane (cioè hanno accentata la penultima sillaba), abbiamo una convergenza tra numero di sillabe e nome del verso:

11 sillabe       endecasillabo

9 sillabe          novenario

7 sillabe          settenario

Nella metrica italiana acquistano, però, grande importanza anche le altre sillabe toniche. Alcuni versi devono addirittura avere accenti fissi: il decasillabo deve avere toniche la 3 a, 6 a e 9 a sillaba; il novenario la 2 a, 5 a e 8 a sillaba; l’ottonario la 3 a e 7 a sillaba; il senario la 2 a e 5 a sillaba.

Altri versi possono avere accenti variabili. È il caso, per esempio, dell’endecasillabo, che può avere l’accento sulla 6 a sillaba (in questo caso l’endecasillabo si chiamerà a maiore); oppure sulla 4 (endecasillabo a minore). A sua volta l’endecasillabo a minore può presentare accentata anche la 7 a o 8 a sillaba. L’endecasillabo può avere tonica la 4 a e la 6 a, ma mai atone entrambe..

Facciamo qualche esempio:

Nel mezzo del cammìn di nostra vìta

Endecasillabo a maiore : 6 a e 10 a accentate

Ripresi vìa per la pìaggia disèrta

Endecasillabo a minore: 4 a,7 a e 10 a accentata

Mi ritrovài per una sèlva oscùra

Endecasillabo a minore: 4 a, 8 a e 10 a accentate

Di conseguenza se Leopardi invece di scrivere

Sempre caro mi fu quest’ermo colle

Endecasillabo a maiore: 6 a e 10 a accentate

Avesse scritto:

mi fu sempre caro quest’ermo colle

avrebbe scritto un endecasillabo sbagliato (accenti sulla 2 a,5 a,8 a e 10 a sillaba con atone sia la 4 a che la 6 a), cosa inconcepibile per la metrica di quei tempi.

Ho parlato finora genericamente di accento, sarebbe stato più corretto, invece, dire: accento metrico o ictus. Può capitare, infatti, che esso non corrisponda perfettamente a quello grammaticale. Prendiamo un esempio riportato da Bertone (1999:105): “in Quant’è bélla giovinézza, l’ictus è, conforme alla sequenza (del domàn non v’è cértezza), di 3a  e l’accento grammaticale di Quant’è nella scansione è debolissimo (recitare:quantebél-)”.

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