Cultura Società e Costume nella canzone italiana. Anni ’60 – ’70

La canzone degli offesi. Il mondo cantato da Fabrizio De André (estratto):

“Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e cosi il mondo continua ad essere offeso. […] Come un eremita antico io trascorro qui i miei giorni su que­ste carte e scrivo la storia del mondo offeso. […] Soffro ma scrivo, e scrivo di tutte le offese una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere”. (Elio Vittorini, Conversazioni in Sicilia)

Ho voluto porre come introduzione a questo mio intervento le parole di Elio Vittorini tratte da Conversazioni in Sicilia, perché credo si adattino molto bene al mondo cantato da Fabrizio De André. Se c’è, infatti, un cantore del mondo offeso questo è Fabrizio De André; se c’è un canzoniere degli offesi, questo è quello di Fabrizio De André.

De André legge la storia dell’umanità come perenne scontro dialettico fra il Potere – con tutti i suoi rappresentanti – e la gente comune – che il potere deve subire. In questo scontro l’uomo può accettare la sottomissione (alle regole, alle convenzioni imposte dalla maggioranza) o cercare di curare il proprio giardino creandosi una propria scala di valori e un proprio modo di vivere.

Il Potere è come una figura reale (quasi un Leviathan di hobbesiana memoria) che riesce a sopravvivere sotto diverse forme in tutte le epoche dell’umanità. È il re che ruba la moglie al marchese, il quale dovrà sottostare alla decisione del suo sovrano (Il re fa rullare i tamburi); sono i farisei che mandano a morire Gesù (Via della croce); è il generale di vent’anni che fa trucidare una tribù indiana composta di soli donne, vecchi e bambini (Fiume Sand Creek). Ma il Potere è, ovviamente, più subdolo e non sempre si materializza nelle figure che materialmente hanno poteri decisionali (re, principi, ministri, ecc.). Il Potere è ciò che ha imposto schemi fissi di pensiero e che è pronto a distruggere tutto ciò che è alternativo (verrebbe in mente il discorso di Pasolini sul genocidio culturale del sottoproletariato).

Particolare attenzione presta, poi, Fabrizio alla borghesia come classe sociale – da cui pure proviene – che una volta impadronitasi del potere nell’ 800 ha imposto schemi comportamentali e culturali assolutamente egemoni In un’intervista dichiarerà: “Canto la malattia della borghesia, anzi, la mia malattia di borghese”(1). Soprattutto il primo De André – alle volte in maniere ironica, altre volte in modo provocatorio – si fa cantore invece di coloro che rifiutano – chi per scelta, chi per necessità – le leggi del branco (i “servi disobbedienti” li chiamerà in Smisurata preghiera) imposte appunto dalla borghesia.

Essi sono coloro che viaggiano “in direzione ostinata e contraria” col loro “marchio speciale di speciale disperazione” (2). Sono figure che spesso si pongono ai margini della società civile o che vengono più o meno apertamente osteggiati dalla morale borghese. Sono le numerose prostitute che troviamo in molte canzoni, ma è anche il povero illuso che si è innamorato di una di esse in Via del Campo; sono i suicidi (a cui non spetta neppure un funerale) come Miché o l’amico Luigi Tenco a cui dedica Preghiera in Gennaio; sono i poveri cristi mandati a morire in guerra e le loro vedove che attendono il ritorno di un soldato vivo e non sanno che farsene di un eroe morte. E poi ancora i drogati, i viados, gli omosessuali, i barboni, i piccoli delinquenti.

Una delle canzoni di Fabrizio che meglio mette in scena questa marginalità sociale è probabilmente La città vecchia pubblicata per la prima volta nel dicembre del ‘65. De André nel riproporla in pubblico durante il suo ultimo tour del 1997 userà queste parole: “Nella città vecchia dimostro di aver sempre avuto, sin da giovane, pochissime idee, ma in compenso fisse, nel senso che in questa canzone già esprimo quello che ho sempre pensato, ovvero che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Ancora oggi non ho capito cosa sia esattamente la virtù e cosa sia esattamente l’errore. Basta spostarci di latitudine e vediamo che i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo” (3).

Ecco, allora, la descrizione dei quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi, perché ha già troppi impegni per scaldar la gente di altri paraggi. Ovviamente tale sole è metaforico e perfettamente mette in evidenza i due mondi, quello degli offensori e quello degli offesi, di cui parlavo prima. Inoltrandoci nella città vecchia ci imbattiamo nelle prostitute anziane che protestano contro l’arrivo delle nuove leve che fanno il mestiere senza vocazione; nei quattro pensionati che ubriachi al tavolo giocano a carte maledicendo le donne, il tempo ed il governo, nel vecchio professore che ipocritamente chiama di giorno le prostitute “pubbliche mogli” salvo poi dilapidare mezza pensione per poter ricevere proprio da loro un po’ d’affetto. Come una sorta di viaggio agli inferi, più ci allontaniamo dalla luce del sole, più abbiamo la possibilità di imbatterci nell’umanità degradata (quanto meno secondo l’ottica borghese): “se ti inoltrerai lungo le calate / dei vecchi moli / in quell’aria spessa carica di sale, / densa di odori / lì ci troverai il ladro, l’assassino e il tipo strano / quello che ha venduto per tremila lire / sua madre a un nano”. Si può notare in questo passaggio l’amaro sarcasmo del cantautore, secondo cui per la morale borghese essi dovrebbero espiare la loro colpa sia con la prigione che, ovviamente, con un’ammenda pecuniaria. Per De André, invece, dovremmo fare uno sforzo maggiore, emanciparci dal dualismo errore-virtù, per giungere alla conclusione che se “li capirai, se li cercherai / fino in fondo / se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo”.

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