Luigi Tenco-Fabrizio De André: storia di un’amicizia

Forse devono essere state le bombe, la paura, la fame… forse è perché in certi momenti storici i dadi ruotano all’impazzata e danno sempre sei. Ma davvero la generazione che viene al mondo a ridosso o negli anni della Seconda Guerra Mondiale è una generazione ricchissima a livello creativo. In Gran Bretagna nel 1940 nascono John Lennon, Paul McCartney e Ringo Starr; nel 1943 Mick Jagger, Keith Richards e Roger Waters. In Italia nel 1939 Giorgio Gaber, nel 1940 Francesco Guccini, nel 1943 Lucio Dalla. E a Genova – anche se, be’, non proprio a Genova, per dirla tutta – nel 1937 Bruno Lauzi, nel 1938 Luigi Tenco, nel 1939 Gian Piero Reverberi, nel 1940 Fabrizio De André. A cui vanno aggiunti, naturalmente, Umberto Bindi (del 1932) e Gino Paoli (del 1934).

È una generazione straordinaria e unica. Come unico e straordinario sarà il decennio che va da metà degli anni Cinquanta a metà degli anni Sessanta. Un economista (1) qualche anno fa ha scritto che a livello economico una spinta straordinaria alla crescita è paradossalmente rappresentato dalla guerra, quanto meno perché i dopoguerra sono sempre caratterizzati da una ricresciate economica con nuove possibilità di sviluppo. È un paradosso evidentemente, un paradosso che pero coglie nel segno. Perché davvero dopo essersi leccata le ferite post guerra, si avverte in Italia negli anni Cinquanta una grande voglia di rinascita e direi non solo da un punto di vista economico.

È in questo periodo che si fa strada una nuova generazione che io definirei “vergine”. Una generazione cioè nata sotto il Fascismo e per cui vergine prima di tutto rispetto alla democrazia e al sistema liberale, come sottolineato anche da un grande critico cinematografico come André Bazin in un importante saggio sul Neorealismo (2).

Ma vergine – ed è la cosa che qui più conta – a livello musicale. Il Fascismo prima e la guerra poi avevano infatti troncato negli anni Trenta i rapporti con la musica statunitense, penso evidentemente allo swing e al jazz, considerata dal Regime “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide” tanto che il gerarca Carlo Ravasio nel 1929 potrà affermare: “è nefando e ingiurioso per la tradizione e quindi per la stirpe, riportare in soffitta violini, mandolini e chitarre, per dare fiato ai sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda…”. Lo sa bene, per esempio, un altro genovese, Natalino Otto, che per anni sarà guardato dal regime con un certo sospetto e di fatto conoscerà un crescente ostracismo (anche se poi va detto che molti italiani continueranno di nascosto ad ascoltare jazz e swing se è vero come è vero che persino i figli del Duce avevano in casa dischi americani e Romano diventerà uno dei più apprezzati pianisti jazz del dopoguerra). Ma non solo con gli Stati Uniti i canali musicali vengono interrotti: l’entrata in guerra segnerà – chiaramente – un periodo di forte avversione anche nei confronti della Francia.

Finita la guerra, di colpo questo flusso, questa corrente musicale ritorna a circolare e allora non è un caso che la nuova canzone d’autore nasca a Genova. Da una parte Genova è a due passi dalla Francia e quindi per prima sente arrivare l’eco degli chansonnier. Dall’altra Genova è una città di mare e nel suo porto sono attraccate le navi americane. Proprio Gino Paoli ricordava come siano stati i soldati americani a riportare nella nostra città i dischi jazz e swing prima e poi il primissimo rock. 

Questa onda investirà come un fiume in piena quella generazione di cui si diceva sopra. È un periodo che il dado davvero dà in continuazione sei. Straordinarietà a straordinarietà si aggiunga che la maggioranza di questa giovani – che avrà poi un ruolo così importante nella storia della nostra canzone – vive l’uno accanto all’altro, nello spazio di pochissimi metri quadrati. L’amico Marzio Angiolani ha scritto che sembra quasi che uno scienziato si sia divertito a inserire così tanti virus in una provetta per vedere quale risultato sarebbe uscito fuori: “Mai si sarebbe potuto progettare a tavolino una tale concentrazione di talenti per il mondo della musica. Mai si sarebbe pensato a mescolare assieme una tale ricchezza di ruoli, rapporti, sentimenti e caratteri diversi. A vederla adesso, dall’alto del nuovo millennio, questa storia sa tanto di una specie di esperimento da laboratorio. Come se uno scienziato enorme, folle e geniale, con le sue immense mani guantate avesse inserito tutti questi virus dentro a una piccola provetta, per vedere come si sarebbero combinati, per capire quante mutazioni avrebbero impresso alla musica” (3).

E allora vediamo questa “piccola provetta” da cui tutto ebbe inizio, questi pochi metri quadrati con il più alto tasso di creatività: la “Piazzetta” nei pressi della Foce. Nei giardinetti che si trovano oggi dietro l’attuale Piazza Rossetti avviene un incrocio di destini davvero incredibile. In Via Rimassa abitano Luigi Tenco e Bruno Lauzi; In via della Libertà Umberto Bindi; in Corso Torino i fratelli Reverberi. Ma non finisce qui, perché in Via Rimassa c’è l’enoteca Enos della famiglia Tenco. Ma, soprattutto, in Via Cecchi c’è la latteria Igea (di Bruno Costa) che diventerà successivamente il Roby Bar, vero punto di ritrovo della più varia umanità. Al piano di sopra vi abita un altro personaggio assolutamente imprescindibile per la storia della canzone d’autore, Riccardo Mannerini: “Mannerini è un altro di quei personaggi che sembrano usciti dalla penna di qualche scrittore naturalista o di qualche fumettista bolognese. La sua è una vita sempre al limite, sul confine” (4). Il Roby Bar è luogo di ritrovo dell’umanità più varia: contrabbandieri, papponi, mignotte, intellettuali, artisti. Va da sé che Mannerini si sente a casa sua. Divenuto quasi cieco – per lo scoppio di una calderina in sala macchina in una nave dove è imbarcato – scriverà versi pieni di amore, di rabbia e di anarchia. Fabrizio De André ne resterà letteralmente folgorato. Tanto da andare ad affittare con lui un monolocale in Salita Sant’Agostino.

Ecco, Fabrizio De André. Lui ha due anni meno di Luigi Tenco. Due anni di differenza quando si hanno 28 e 30 sono ben poca cosa. Ma quando uno ha 18 e l’altro 16, sono una vita. Forse anche per questo – almeno da quello che sappiamo – all’inizio i loro percorsi non si intrecciano.

Eppure un possibile punto di contatto ci sarebbe: il jazz. Tenco mette su la sua prima band nel 1953, la Jelly Roll Morton Boys Jazz. Lui al clarinetto, Danilo Degipo alla batteria, Lauzi al banjo e Alfredo Gerard alla chitarra. De André dal 1956 al 1958 nella Modern Jazz Band con Mario De Sanctis al piano e sax, Carlo Casabona al contrabbasso, Corrado Galletto alla batteria, Alberto Camelli e Attilio Oliva al sax. Eppure un momento di incontro ci deve pur essere stato se è vero come vero che Tenco alle volte suona nella Modern. Sulla prima volta in cui ciò accade, però, le fonti differiscono: per Oliva l’incontro avviene in un locale a Punta Vagno (in cui ci sarebbe stato anche Paoli) per Galletto invece al Duse per un concerto in cui mancava un sax.

Ma i due, Tenco e De André, per quanto sembri incredibile quasi si ignorano: “A quel tempo ci conoscevamo appena, con lui le prove non le ho mai fatte; arrivava, suonava e subito dopo se ne andava” (5).

Un altro momento di possibile incontro potrebbe essere stato a casa Repetto. E invece anche in questo caso nessun contatto. Piero Repetto era un professore di Italiano rimasto paralizzato, mente estremamente brillante. La sorella Anna – che aveva sposato Gege Cardillo, amico comune di De André e Mannerini… di più: quello che li aveva fatti conoscere) aveva fatto in modo che dopo l’incidente il fratello potesse ancora avere una vita intellettualmente viva e stimolante; contatta una serie di amici che possano frequentarlo. E così di notte casa Repetto si riempie della più varia umanità genovese, da Paolo Villaggio a De André, da Mannerini a Gigi Rizzi, dall’avvocato Tina Lagostena Bassi a Tenco. Siamo negli anni 1958-1959. I due si sfiorano, ma ancora non si toccano.

Il vero incontro, quanto meno quello riconosciuto come tale da Fabrizio De André avviene nel 1960 nel locale della Cambusa. E lasciamo allora la parola proprio a De André che ricostruisce l’avvenimento a Cesare G. Romana: “Luigi l’avevo conosciuto in una balera di piazza De Ferrari, a Genova. Una sera sentii qualcuno toccarmi la spalla, mi voltai, lo riconobbi, era Tenco. Mi apostrofò: «Sei tu che vai a dire in giro che Quando l’hai scritta tu?». E io: «Si». E lui: «Perché?». «Per prendere della figa”, risposi. Era vero, lo avevo detto a qualche ragazza, ballando guancia a guancia proprio sulla musica di Luigi. Lui si mise a ridere e diventammo amici” (6). A Luigi Viva, Gianfranco Reverberi dà una descrizione dell’accaduto un poco più edulcorata: “Mi ricordo quando Luigi divertito, mi raccontò questa storia. Si conoscevano appena e gli era giunta voce che Fabrizio andava in giro dicendo che Quando l’aveva scritta lui. Luigi non ci pensò due volte e andò a cercarlo. Una sera finalmente lo incontra e gli fa: ‘Senti un po’, sei tu che vai in giro dicendo che hai scritto Quando?’. A questo punto pare che Fabrizio gli abbia risposto ‘Guarda, ero con una donna alla quale piaceva Quando. Ho detto che l’ho scritta io e me la sono fatta’, al che Luigi scoppiando a ridere, ‘Beh! Se le cose stanno così…” (7).

Da quel momento inizia una frequentazione più che una vera e propria amicizia, stando a De André: “Ci saremo visti venti volte in tutto. Più che un’amicizia era una grossa stima reciproca” (8). E ancora: “Con Tenco c’era parecchia stima o meglio affetto. Non lo frequentavo molto ma quando lo incontravo passavamo magari un’intera nottata a parlare per le strade deserte, in casa di amici”. Va aggiunto che – a mio avviso per una sorta di pudore molto genovese – De André utilizzerà pochissime volte la parola “amico” per parlare di Tenco. Una sorta di pudore che evidentemente nascondeva anche un timore di essere in qualche modo accusato di “sciaccallaggio” dopo la morte dello stesso Tenco. Ma su questo torneremo dopo. Resta il fatto che di alcuni di questi incontri tra De André e Tenco abbiamo testimonianza. E ci preme qui rievocarli.

1961, l’amico di Fabrizio Beppe Piroddi organizza un incontro a quattro perché una ragazza (Enrica Puny Rignon che diventerà poi la prima moglie di De André) vuole conoscere Fabrizio. Il quale inizialmente nicchia. Non ha molta voglia di uscire. Convinto dall’amico, i quattro vanno ai bagni Tre Pini dove proprio quella sera canta Tenco. A metà serata Luigi, sempre estremamente generoso, chiede a  Faber di salire sul palco. De André esegue La ballata del Miché e La ballata dell’eroe. Pare che quell’esibizione aiutò a far cadere le (deboli, bisogna dirlo) resistenze di Puny. Lei pensa subito all’amore, lui è più pragmatico: “Era un martello! Metteva le mani dappertutto, aveva un chiodo fisso, non pensava ad altro” (9).

1962, Tenco utilizza la Ballata dell’eroe per il film L’albero della cuccagna. Di più, in copione quella parte non c’è. È Tenco che si impunta, litigando, anche con il regista Luciano Salce per poterla eseguire. De André l’ha appena pubblicata, non è ancora conosciuto (nella copertina compare solo il nome Fabrizio) e Lugi avrebbe potuto benissimo cantare una delle sue. E invece è proprio innamorato di quel pezzo. Così ricorda la vicenda Faber: “Più che cercare di aiutarmi mi stimava. Gli serviva una canzone e, mentre avrebbe potuto prendersela tranquillamente (una volta depositato un pezzo chiunque lo può utilizzare) fu così delicato da telefonarmi. ‘Ti va se ti piglio La ballata dell’eroe?’ disse. ‘Ma figurati, Luigi, mi fa piacere’” (10).

D’altronde la stima di Tenco è anche documentata; ecco un passaggio dell’intervista a Tenco da Herbert Pagani per Radio Montecarlo, siamo nel novembre del 1966:

“E ora sentiamo un cantante che ti piace

Un cantante che mi piace è un mio amico di Genova un certo Fabrizio

Questi genovesi… vi volete bene tra di voi genovesi

Affetto profondo. Tra l’altro ho fatto un film cinque anni fa nel quale ho inserito una canzone di questo ragazzo. Il film era La cuccagna e la canzone di Fabrizio si intitolava La ballata dell’eroe”.

Ma riprendiamo il nostro viaggio.

1966, nei cinema viene proiettato La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Un film molto forte sul colonialismo francese in Algeria. Per i due diventa occasione di dibattito e stimolo creativo: “Una sera ci incontrammo al cinema e dopo aver visto la Battaglia di Algeri andammo alla Foce con la sua macchina e lì davanti al mare abbiamo discusso tutta la notte di colonialismo, di guerre di liberazione e del contenuto del film. Umanamente ci siamo trovati” (11). E ancora, racconta sempre Fabrizio a Renzo Parodi: “Vedemmo almeno quattro volte ‘La battaglia di Algeri’ di Pontecorvo e ne discutemmo per notti intere. Per me Luigi è stato un fratello e gli sarò sempre riconoscente” (12). Nasce addirittura l’idea di un film e di una tournée teatrale insieme: “Avevamo progettato di fare un disco insieme. Ricordo che ne parlammo un giorno seduti al Baretto, in Corso Italia, ambiente notoriamente frequentato da giovani borghesi di destra. Provocatoriamente io dicevo:
– Facciamo un disco anarchico.

E Luigi ribatteva:

– No, no, facciamo un bel disco comunista” (13).

Dello spettacolo e di un possibile disco i due parlano anche pochi giorni prima del fatidico Sanremo. Gennaio 1967, mancano pochi giorni al Festival. Luigi appare piuttosto agitato e si ritrova a parlare con Fabrizio fino alle 3 di notte due giorni prima dell’inizio della rassegna: “Mi parlò della sua angoscia di affrontare la bolgia del festival. Mi disse: Non vedo l’ora che tutto finisca per tornare da te e mettere su uno spettacolo insieme” (14).

Siamo all’epilogo. Un colpo di rivoltella pone fine alla vita di Luigi. Fabrizio viene svegliato in piena notte e la sua reazione è talmente sconvolta da risultare assurda. Scrive Romana (testimone dell’accaduto): “[Saputa la notizia] aveva urlato la cosa più grottesca che potesse affacciarsi alla sua mente sconvolta: Ma perché, ma è impazzito, proprio ora che aveva firmato il contratto con la RCA” (15).

Comunque De André non perde tempo; chiama Anna Paoli e con Puny partono subito alla volta di Sanremo. Così ricorda Fabrizio: “Appena saputa la notizia della sua morte mi precipitai all’obitorio. Quando lo vidi lì disteso, con questo turbante di garza insanguinato, mi colpirono il pallore della morte e il colore viola scura delle sue labbra carnose. Le ho ancora impresse nella mente e le menzionai nella canzone che scrissi sull’onda di quell’emozione partendo da una poesia di un autore del Novecento francese, Francis Jammes” (16). Ovviamente la canzone sarà Preghiera in gennaio che poi aprirà il primo Lp di De André uscito qualche mese dopo, Volume I. De André sarà anche uno dei pochi colleghi (insieme a Michele Maisano e i fratelli Reverberi) presenti al funerale. Tra loro c’è anche Cesare Romana ed è a lui che Fabrizio recita i versi della canzone: “Durante il tragitto a piedi, dietro il feretro, Fabrizio, che era arrivato con la Puny e la moglie di Paoli, mi recitò in un orecchio i versi di ‘Preghiera in gennaio’ che aveva scritto durante la notte. Alla fine mi disse: ‘Se ti azzardi a far sapere che l’ho scritta per Luigi ti stacco le palle’. Non voleva che qualcuno equivocando scambiasse quell’estremo atto di affetto per una manovra commerciale” (17).

Ovviamente i giornalisti che recensiranno Volume I metteranno in collegamento la canzone con Tenco, ma per lungo tempo De André si rifiuta di rispondere a chi gli chiede esplicitamente se la canzone è a dedicata a lui. Fino al 1969 quando in un’intervista per il “Corriere del Ticino” Mariuccia Ferrari gli domanderà:

“La sua Preghiera in gennaio è ispirata a Luigi Tenco?

Lei ha idealizzato Luigi Tenco?

Ho inciso la canzone sui suicidi ancora sotto choc, dopo aver visto Luigi steso in quel piccolo obitorio vicino a Sanremo, pareva un ospedaletto da campo. Nella mia canzone c’è una specie di tentativo di riscatto, da parte di un ente supremo come Dio, che fa proprio il contrario di quello che hanno fatto gli uomini: cioè, lo perdona. È una canzone che è stata considerata addirittura blasfema, quando nell’ultima strofa dico per esempio: dio di misericordia vedrai sarai contento. Questo dialogo uomo-Dio a tanta gente non piace, gli dà fastidio. Il discorso che ho voluto fare io era questo: stai tranquillo, che se non ti abbiamo capito noi, ci sarà qualcuno che ti capirà meglio. Anche se tutto sommato non posso considerarmi né cristiano né cattolico, mi farebbe tanto piacere che nel caso di Luigi ci fosse veramente un dio” (18).

L’outing definitivo avverrà però nel 1975 proprio a Sanremo. Fabrizio è lì per il suo primo tour: “«Mi sembrò ingiusto, dopo otto anni, negare un fiore alla sua tomba, il piccolo dono di un piccolo ricordo.» Così afferrò il microfono, cantò «Preghiera in gennaio» e disse: «Questa canzone la dedico ad un amico. Si chiamava Luigi»” (19).

(Intervento al convegno: Luigi Tenco e Tullio Piacentini: i rivoluzionari della VideoMusica in mostra, presso la Biblioteca Universitaria genovese, giugno 2012)

 

1 Sbancor, American Nightmare.  Incubo americano, Modena, Nuovi Mondi Media, 2003.
2 Bazin A., Che cos’è il cinema, Milano Garzanti, 1986
3 Angiolani M. – Podestà A., Genova, storie di canzoni e cantautori, Zona, 2011, pp. 27-28.
4 Angiolani M. – Podestà A., Op. Cit., p. 80.
5 Viva L., Vita di Fabrizio De André. Non per un dio ma nemmeno per gioco, Feltrinelli, 2000, p. 51
6 Romana G. Cesare, Amico fragile, Sperling & Kupfer, 1991
7 Viva L., Op. Cit, p. 87
8 Viva L., Op. Cit.
9 Testimonianza di Enrica Puny Rignon in Viva L., Ibid.
10 Viva L., Op. Cit., p. 92.
11 Viva L., Op. Cit.
12 Parodi R., Luigi Tenco, Tormena Editore, 1997
13 Ibid
14 Ibid
15 Romana G. Cesare, Op. Cit, p. 54
16 Cappelli R., Cantico per i diversi, “Mucchio selvaggio”, settembre 1992
17 Romana G. C., Op. Cit., p. 56
18 In Sassi C. – Pistarini W., De André talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, Roma, Coniglio Editore
19 Romana G. C., Op. Cit., p. 57

 

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