Francesco De Gregori – Sulla Strada

Sì, deve essere questione di strada. Ma non quella di kerouac, perché quello è poco più che un pretesto. Ma la strada della vita e della vita del musicista, in particolare. E di strada ne ha percorsa proprio tanta in questi anni Francesco De Gregori, impegnato in una sorta di neverendig tour un po’ alla maniera di Bob Dylan (ok, l’inevitabile citazione al menestrello di Duluth ce la siamo giocata qui e non la ritireremo fuori!). Mesi passati a suonare nei teatri, a suonare nei pub. Per il gusto davvero solo di suonare. E poi arriva l’ispirazione giusta per scrivere nove buone canzoni. E deve essere allora la strada percorsa nella tua carriera che ti fa decidere se sono canzoni che senti di aver già scritte mille volte (e quindi accantonarle) oppure se vale la pena dar loro voce. Una volta si sarebbe definito “Sulla strada” un disco rigoroso. Nessuna sbavatura, nesun crollo verticale. Intendiamoci, a dirla proprio tutta, probabilmente neppure nessun nuovo capolavoro (soprattutto nei testi), nessun capitolo davvero imprescindibile. Eppure è un disco in cui tutto si regge, un disco ben suonato (davvero ottimo il lavoro di Guglielminetti), ben cantato (con l’età sembra migliorare la voce del Principe)… un disco assolutamente degregoriano. Sia nelle scelte musicali che in quelle tematiche. Ed allora eccola di nuovo la strada, perché pochi in Italia hanno saputo usare la metafora del viaggio e dei mezzi di locomozione come il cantautore romano. Un vero e proprio topos, quello della strada della vita, che qui trova l’epitome nella splendida “Passo d’uomo”.
La struttura è nel più classico stile cinematografico a lui tanto caro. Nella prima sequenza l’Io narrante (lo stesso cantautore) si presenta affacciato alla finestra mentre sta fumando. Nella seconda intravediamo (o meglio è quello che presumibilmente intravede il narratore) un mendicante davanti alla chiesa: “Qualcuno sta aspettando/ all’uscita della chiesa/ benedici il suo cappello vuoto/ la sua lunga attesa/ è una vita che si affanna/ e cerca e ruba/illumina il suo tempo/insegnagli la strada”. Eccola l’umanità tante volte cantata da De Gregori, quella umiliata e offesa dalla vita. Ma ecco anche la richiesta di un intervento divino, di una sorta di benedizione di un’entità superiore. Nella terza strofa, in maniera un poco ambigua l’Io narrante non sembra più essere il cantautore ma un operaio (ma più verosimilmente l’Io narrante semplicemente si identifica nell’operaio che sta guardando): “Sono solo un operaio/lungo la massicciata/il mio pane sa di polvere/la mia acqua è salata/e lavoro per la ruggine e respiro il carbone/costruisco per niente e non ne vedo la fine”. Si notino alcuni termini che chiaramente si riferiscono al lavoro dell’operaio ma che di fatto sono dei correlativi oggettivi della fatica del vivere: polvere, acqua salata (che ricorda l’incipit de “La testa nel secchio”), ruggine, carbone. Nella strofa successiva ecco nuovamente l’Io narrante che, dopo aver deposto la macchina da presa, riflette su ciò che ha visto e ci ha fatto vedere. Anche in questo caso una sequenza nel più tipico stile degregoriano con l’accostamento di termini antinomici (ancor più rafforzati dall’anafora): “e non c’è niente da nascondere/ niente da svelare/ niente da tenere stretto/ non c’è niente da lasciare”. Sembrerebbe, insomma, tutto scontato e invece proprio nella sua struttura in qualche modo “classica” questo è davvero un gran bel pezzo che suona incredibilmente fresco e, soprattutto, autentico.
Non mancano – come dicevo – altre belle canzoni. Come il delicato valzer di “Showtime”, la rebetika e un poco coheniana “Belle epoque” (che sembra quasi essere il prequel di “Gambadilegno a Parigi”), la marcia rock de “La guerra” (altro tema che non poteva mancare!). Ma l’altro piccolo gioiello del disco è senz’altro “Guarda che non sono io”. Su un tessuto armonico che ricorda da vicino “Sempre e per sempre” (e impreziosito dagli archi di Nicola Piovani) Francesco De Gregori finalmente spazza il campo da tutti gli equivoci che inevitabilmente colpiscono i personaggi pubblici: Mi spiace per voi, ma io non sono ciò che canto! E’ una linea di demarcazione prima di tutto nei confronti dei “suoi” personaggi: “Guarda che non sono io quello che mi somiglia/L’angelo a piedi nudi, o il diavolo in bottiglia/ Il vagabondo sul vagone/ La pace fra gli ulivi, e la rivoluzione”. Quasi come il famoso “Ceci n’est pas une pipe” di Magritte!
Ma è anche una linea di demarcazione tra l’autore De Gregori (ma per sineddoche tutti i nostri miti) e l’uomo De Gregori. Nel farlo ancora una volta utilizza il linguaggio cinematografico. In una sorta di piano sequenza ecco De Gregori uscire dal supermercato (e mi viene in mente l’ultima fotografia scattata di nascosto a Battisti, proprio all’uscita di un supermercato), un fan lo ferma per chiedergli spiegazioni di un testo, ma lui (e d’altronde quante volte ce lo deve dire che “non c’è niente da capire”) declina bruscamente l’invito: “Cammino per la strada/ qualcuno mi vede/ e mi chiama per nome/ si ferma e vuol sapere/ e mi domanda qualcosa di una vecchia canzone/ ed io gli dico: “Scusami però non so di cosa stai parlando/ sono qui con le mie buste della spesa/ lo vedi sto scappando/ se credi di conoscermi/ non è un problema mio”. Già altre volte De Gregori aveva scritto metabrani sulla sua professione di cantante e artista (“Battere e levare”, “La valigia dell’attore”). Ma mai era risultato così diretto e sarcastico. Un sarcasmo che si fa più velato e ironico anche in un’altra canzone dalla tematica simile, “Omero al cantagiro” (con bellissimo incipit pseudo dannunziano: “Piove che Dio la manda/sulle bocche aperte/piove che ci si bagna/sulle macchine scoperte”). Anche in questo caso il cantautore viene visto dal pubblico come una sorta di Omero, di vate capace di regalare chissà quale verità. È invece è un Omero in percentuale. Un Omero – che proprio come il De Gregori di “Alice” – partecipa al Cantagiro… mica alle Dionisie!

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