Max Manfredi – Luna persa

Prezioso. Prezioso è il primo aggettivo che mi viene in mente mentre ascolto Luna persa il nuovo cd di Max Manfredi. Una sorta di vaso di coccio da preservare in mezzo ai vasi di ferro (arrugginiti) della discografia italiana.
Il secondo termine a cui penso è Capolavoro, non fosse che oramai la parola ha perso da tempo il suo reale significato e la patente di capolavoro non si nega più a nessuna media (o anche più bassa) produzione artistica nostrana o estera. E, allora, meglio Prezioso…come un monile.

Al chiaro della luna / luna persa…se proviamo a fare un gioco di taglia e incolla tra il titolo del primo brano e l’ultimo ne esce una sorta di chiasmo, di inversione…al chiaro della luna / luna persa.
Ma come ha fatto la luna a trasformarsi da chiara a persa (se per persa intendiamo fosca, scura), come abbiamo fatto a perdere la luna (se per persa intendiamo smarrita)? Come tutto ciò è potuto accadere ce lo spiega Manfredi nelle 11 tracce che compongono l’album.

Sì, perché la luna di Manfredi, la nostra luna, ha assunto un colore minaccioso. E la storia di questa mutazione è la storia di una tragedia. La tragedia di un paese che ha perso inesorabilmente la rotta del buon senso, della dignità, dell’etica. Manfredi ci racconta un’umanità allo sbando, derelitta, eppure rabbonita dai rassicuranti messaggi televisivi, perché se la “storia la fanno i vinti” poi “la raccontano i vincitori / (e ci inseriscono spot di bambini, di donne e motori)”.

L’ora del dilettante, quella in cui ogni incapace di minimo talento può provare il suo quarto d’ora di celebrità (come sperava anni fa Andy Warhol e realizza oggi Carlo Conti!), è abolita perché il dilettante ora è lui il padrone.
Macerie fumanti si intravedono nell’apparente Regno delle fate, che risulta alla fine essere un triste cinemino in cui gli attori inconsapevoli siamo noi. Ecco apparire il primo treno del disco…quello che dovrebbe portare verso un Altrove diverso. Al momento siamo costretti dalla quotidianità a scendere, per vedere madri che presentano ai nuovi Erodi i propri figli capricciosi, sacrificandoli più che  volentieri agli dei della moda; il tutto in attesa che i topi escano dai tombini – ancora otto topi a testa? – per occupare “tutti quanti i posti chiavi delle leve del potere”.

Altro fumo e altro treno si scorge sui binari di Terralba (Terralba Tango), dove treni merci (ancora merci!) piene di tossine da spargere in giro per l’Italia sono pronti a partire; li si può salutare da lontano a patto di stare attenti coi piedi a non calpestare residui di cibo rigurgitati per terra e topicidi.
E topi (ancora topi!) sono i compagni dei pezzenti e degli ubriaconi che hanno i nervi a corda di zimbalom e che sono costretti a vivere nelle gallerie sotterranee, moderne catacombe, pur di star lontano dalla tentazione del bar.
Stazioni, autostrade, pensioni maledeoranti, bagni senza acqua calda, ristornati dai mille afrori…fanno da sfondo all’eterna fuga di un padre di famiglia e di sua figlia Sofia (Luna persa), che trafficano qualsiasi merce, pur che sia di contrabbando. Il mondo acquista i colori lividi (persi) di una continua minaccia. Che la loro corsa sia l’allegoria della corsa senza speranza di tutta l’umanità?

Perché, poi, il nemico non sempre è fuori da noi, ma si può annidare dentro di noi. Se il Potere ha bisogno di creare un nemico per far sì che il morale della truppa sia alto, sia vivo, sia vero, la morale è che “senza una guerra, prima o poi, ti annoierai”. Quindi ben venga il nemico immaginario, perché almeno non ci costringe a guardarci dentro e a scoprire che “il nemico siamo noi”. Da estroflesso a introflesso…in fin dei conti tutto Luna persa è così.

Nessuna speranza, quindi? Apparentemente no…o forse è affidata a barlumi di epifanie femminili, a passaggi di venti e a cartelloni sballati in stazione. Al ripiegamento verso noi stessi.

L’amore. Luna persa è (anche) uno straordinario lavoro sulla possibilità salvifica dell’amore (fosse  anche solo sotto forma di pura carnalità e sessualità) e della donna. Poco importa che lei resti solo una notte per bere con noi retsina, poco importa se spetterà a noi prenderci i resti dello sbaglio di un altro. L’importante è che lei resti qui questa notte, proprio qui, accanto a noi nel letto “a parlare, a cantare, a ridere e a venire”, per lasciarla libera poi di ripartire l’indomani.

E poco importa, anche, se l’incontro avviene quasi, come un cinema nella realtà (ancora il cinema!); perché – alla fine – se l’incontro è quasi un incontro anche il lasciarsi sarà un quasi lasciarsi.

La bellezza e la purezza femminile vanno, però, anche preservate. Che Aprile porti allora sonno e ristoro, ma anche risveglio della carne e dei sensi. È aprile il mese per prendere e per dare quello che l’amante vuole…perché a maggio l’amore è già un dovere, in autunno sarà un’ora di prigione e in inverno sarà troppo tardi per capire.

La possibilità di salvezza è data anche dai passaggi di vento…perché “domani è un avverbio di vento, può sempre cambiare”. Che il libeccio venga a pulire “’sto stivale”, che ponga fine all’embargo, che risvegli dal letargo.

Ma, forse, l’unica vera salvezza – come detto – risiede nell’anello montalianamente che non tiene, nello strappo nella rete, quello – in questo caso – di un cartello sballato in stazione a Pavia… solo quello apre il varco, il passaggio per Kukuwok… per il non esistente, il non luogo agognato e sognato… perché alla fine “con l’aereo, col treno o con la diligenza / ogni posto va bene, purché non sia qui”. Da estroflesso a introflesso… perché Kukuwok porta proprio nell’unico luogo in cui la bruttura non ci può più raggiungere: il passato, l’infanzia. Il non luogo dove i cow boy e gli indiani si sparavano sì, ma con pistole giocattolo.

Ho parlato prima di continua tensione tra estroflesso e introflesso, in realtà bisognerebbe parlare anche di dialettica costante tra fisico e metafisico, tra reale e altrove, tra prosaico e poetico. Tale dualismo è evidentissimo a livello testuale, dove termini legati al primo abito (quello della carne, del fisico, del concreto) si incrociano e si saldano con quelli dell’altro ambito (dell’etereo, dello spirito, del possibile).

D’altronde è straordinaria, come sempre, la perizia con cui Max scrive i suoi testi. Le immagini alle volte si susseguono non per sviluppo logico e neppure analogico…ma per sbalzi di significato. Un esempio tra tutti: “E impazzivano le famiglie, la maionese veniva male, / le tendine e le vele sbattevano sotto il maestrale”.

Altre volte, invece, il testo evoca immagini e per farlo salta volutamente dei nessi logici grammaticali, lavorando per ellissi: “Quasi incontrarti lungo la sera (cinema nella realtà)”, “Sì ma questa pensione di merda e quest’odore di lavanderia / e questa musica andata a male su tutti i “tàksi” della Turchia”.
Numerosi i giochi di parole: “Perché domani è un avverbio di vento: può sempre cambiare”; i neologismi: “Scavalco ex vomito” (straordinario!); i dialettismi e forestierismi: “Tocco e sûgu di ratto pennûgo, spuma di ciaebelle”, “O ciudad de currientes / acabarà este embargo / te despertaras del letargo / de preguntas prudentes.
Termini che rientrano nello stesso campo semantico – espediente lungamente usato, tra gli altri da Ivano Fossati – li troviamo in Aprile: “Bambine che aspettate ad aspettare?”, “Lo riconoscerete dal rumore / dei passi che sognate di sognare”, “Sole, vi sentirete meno sole”.
L’esigenza di trovare parole tronche determina l’uso di termini stranieri in clausola che producono rime inusuali (in omaggio alla celeberrima rima Nietzsche:camice dell’amato Gozzano?): computer: sconosciute.
Numerose le figure retoriche, come le metafore: “Ma i miei nervi sono corde di zimbalom”; le prosopopee: “L’inverno è caduto di schianto”; le allitterazioni e le paronomasie: “dove il popolo dei pendolari / lascia scalpi e scalpori”, “Prendi a bordo questo mio ricordo diventato sordo”.
Un ultima annotazione sulla voce. Ho come l’impressione che mai come questa volta Max abbia espresso tutto il meglio di se stesso anche a livello vocale. Manfredi si scopre cantante a tutto tondo…con continui sbalzi di forme e stilemi…dal recitativo al vocativo, dall’ironico all’indignato, dal sensuale al sensibile.

Sì, un vaso di coccio prezioso anche linguisticamente parlando Luna persa… da preservare nel cicaleccio di (quasi tutta) la restante discografia italiana.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *