Pacifico – Bastasse il cielo

Che poi forse era già scritto tutto nella title-track del suo primo disco. E naturalmente nel suo nome d’arte: Pacifico. Sì, Gino De Crescenzo è un uomo pacifico, ma nel senso proprio dell’Oceano, a cui ha dato il nome Magellano (trovandolo, stranamente calmissimo). Pacifico in quanto agitato da bufere interiori apparentemente insanabili (“Acqua , fuoco, onde cento metri,/ vento di burrasca che fa tremare i vetri e che mi batte”). Potrebbe sembrare un mero dato biografico – sempre che poi sia vero! – che poco ha interesse in sede di recensione. Non fosse, poi, che tale “pacificità” diviene una vera e propria cifra stilistica e poetica per l’artista Pacifico. Per dirla, fuor di metafora: quella che ci canta magistralmente il cantautore milanese è un’eterna e unica canzone fin dal suo primo album. Una canzone dall’andatura calma (appunto) e quasi sommessa, che racconta, spesso, un tormento interiore. Se fosse letteratura, ci muoveremo probabilmente nel campo dell’antimodernismo, tra le pagine, per esempio, di un Saba. Con ciò si potrebbe obiettare che la recensione di questo nuovo splendido e attesissimo Bastasse il cielo potrebbe dirsi, provocatoriamente, conclusa. Ma chiaramente non è così. Il canzoniere – per mantenere la similitudine col Saba – del Nostro si rinnova. Sull’asse del significato: se prima si cantava di genitori da salutare prima della partenza (Le mie parole), adesso Pacifico è lui stesso genitore con tutte le responsabilità che ciò comporta. Sull’asse del significante, con un disco – registrato tra Parigi, Bath, New York, Istambul e varie città italiane – ricchissimo di idee e scelte in sede di arrangiamento davvero notevoli (da brani solo piano e sassofono dal vago tenore jazz, all’impiego in altri di drum machine e synth e poi, ancora, di violini e viole, archi, flauti, kanun, vibrafono, violoncello).

Pacifico ha una capacità davvero unica di muoversi lungo due fronti. Da una parte vi è in lui una sorta di spirito voyeuristico. Un’attitudine ad osservare la realtà quotidiana del piccolo gesto (ancora Saba!), della piccola vicenda apparentemente insignificante. È il caso del gioiello A casa, in cui siamo catapultati nella vita di due figure femminili (verosimilmente una ragazza madre e sua figlia di dieci anni) che rovistano nella spazzatura. Sono zingare? Extracomunitarie? L’ascoltatore è depistato, perché viene subito dopo spiazzato dal fatto che la vicenda si sposta nella casa della coppia: la bambina forse studia (sottolinea il libro), la madre è affacendata nelle faccende domestiche. Il tutto reso con verbi al condizionale. Ma allora Pacifico non le conosce, ipotizza. Sì, Pacifico (l’uomo o l’artista poco importa) deve avere questa strana “perversione” – che lo accomuna anche a chi scrive – di osservare le finestre e immaginarsi la vita dei personaggi che quelle case abitano (e quante case anche in questo album, dopo che ad esse aveva addirittura dedicato un intero disco: Dentro ogni casa). Ma il coup de théâtre, geniale, arriva alla fine: “Le vedo passare ogni giorno sulla strada di casa”. Sì, sono persone che Pacifico vede ogni mattina sulla strada a ridosso di casa sua. Perché un colpo geniale? Perché il cantautore si guarda bene dallo svelarci questa notizia all’inizio del brano –  e avrebbe potuto benissimo farlo! – ma lo lascia in clausola, coinvolgendo quindi l’ascoltatore verso questa vita, apparentemente, insignificante. È una scelta poetica efficacissima perché, appunto, per tutto il brano l’ascoltatore è chiamato in causa, è costretto anch’egli a chiedersi di chi diavolo si stia parlando. Sembra una sottigliezza. È un colpo di bravura.

Il secondo fronte è quello, invece, del lirismo interiore. Pacifico smette di descrivere ciò che accade fuori per concentrarsi su ciò che avviene dentro. Dentro di lui. Dentro di noi. Sono le grandi canzoni d’amore. Perché alla fine – lo abbiamo detto – la vita è tormento, è bufera, e solo l’amore può dare un senso ultimo a tale sofferenza. Varrà qui la pena citare solo a mo’ d’esempio Sarà come abbracciarsiMolecole e, soprattutto la conclusiva Quel che so dell’amore. Il problema è che – quante volte accade ascoltando Pacifico – questo amore sembra continuamente sfuggirci proprio quando sembrava l’avessimo trovato.

Ovviamente non c’è solo questo. Perché la novità, come detto, è che rispetto al primo album ci troviamo di fronte ad un uomo che è maturato, che è diventato padre e si pone nuove domande esistenziali. È Il destino di tutti, come ci ricorda la canzone eponima: una costante riflessione tra l’essere figlio e l’essere padre: “Io come figlio ero come si dice un ragazzo per bene/ troppe volte ho scelto il silenzio/ troppe volte ho lasciato andare/ Io come padre ci provo e non so come fare/ a cercare di cambiare ogni giorno”.
Si avverte per tutto Se bastasse il cielo da una parte un ripiegarsi verso un passato che non può tornare (in Salto all’indietro si aprono i cassetti dei propri genitori per ritrovarvi oggetti dall’apparenza banali, ma correlativi oggettivi di un qualcosa che è scomparso per sempre), dall’altro la visione di un futuro tanto incerto, quanto umanamente affascinante e fonte di ulteriori paure. In fondo la vita non è che un lento e inesorabile passaggio di acqua di un fiume in piena, come in ElectroPo (dall’Oceano Pacifico, insomma, al fiume Po: “I mulinelli, buchi nella superficie/ attento, attento, attento/ che ti porta via la corrente”). Un fiume che brucia d’amore (spesso perso) e con una bellezza così fragile che – appunto – servirebbe ben più del cielo per preservarla.

Qualcosa è necessario, poi, aggiungere su come Pacifico riesca a rendere efficacemente le sue intenzioni a livello linguistico. Sicuramente una delle figure retoriche maggiormente amate da Gino De Crescenzo è quello della personificazione. Avveniva, nel primo disco, in Fine fine in cui ci si rivolgeva alla pioggia perché raggiungesse la persona amata; qui accade nella title-track in cui l’interlocutore è la notte (con il voluto errore morfosintattico di rendere un verbo meteorologico personale: “Tu piovi forte e fatti maledire”). Poi le amatissime rime (perfette o imperfette) interne, qui oltretutto contenute: “La madre ha il passo pesante/ un cappotto troppo grande che sembra vuoto” (A casa), “Dentro i cassetti segreti da grandi” (Salto all’indietro). E poi, ancora le metafore e le similitudini: “La figlia è una cavalletta, salta su un piede solo” (A casa), “La nebbia è un fantasma che scivola in terra” (Il destino di tutti); i versi nominali: “A casa/ cucina e stanza/ il libro da sottolineare” (sempre in A casa).
Insomma, dopo alcuni anni di lavori come autore per altri, c’era proprio bisogno del ritorno del Pacifico autore per se stesso. Un disco necessario. Anche per lui

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