Equ – L’altro Me

Davvero uno strano e tortuoso percorso quello di questi quattro ragazzi romagnoli. Approdati quasi per caso a Sanremo nel 2005 con un brano, L’idea, dalle forti venature pop e godibilissimo, gli Equ hanno poi virato nel giro di pochissimo tempo verso i lidi del teatro-canzone. E così dopo l’eponimo disco d’esordio, nel 2009 hanno dato alle stampe un cd in cui si narrava di un suicidio e di una possibile rinascita (Liquido). Eccoli, a quattro anni di distanza e ancora aiutati da Francesco Gazzè, Federico Bellini (per ciò che concerne la parte testuale) Marco Canepa (negli arrangiamenti), impegnati a raccontare una storia che presenta alcuni temi cari ai quattro: la ricerca del senso ultimo dell’esistere, il rapporto vita/arte, la contrapposizione tra finzione e realtà, lo smarrimento nell’ (ma anche dell’) amore, la presenza dentro di noi di una moltitudine di Io (e d’altronde già ne L’Idea si cantava: “Conosci te stesso? No, con gli estranei non parlo mai”)

Una storia che si divide idealmente in due momenti: una sorta di primo e secondo tempo (e non a caso Un altro me è anche uno spettacolo teatrale diretto daSelene Gandini in cui immagini e recitazione si integrano con le canzoni dell’album) in cui il protagonista è un barista dalla vita abitudinaria e normale (“Parlo di spalle servito/ il bagno è la in fondo pulito/ ci vuole la chiave l’invito/ cassa scontrino finito”), in definitiva terribilmente noiosa e priva di senso. A poco valgono le trite battute ripetute ai clienti (“Bancone protegge divide/ risposte sul vago precise/ battute limate provate/ « l’espresso è in ritardo aspettate »”). Una ripetitività che è data a livello testuale dal ritmo incalzante di versi nominali. Al solito Gabriele Graziani, voce del gruppo, ama giocare con le parole, per cui L’inventario inizia con un acrostico alfabetico (“Acqua gassata potabile tonica/ Birra alla spina leggera analcolica/ Caffè con latte con panna corretto/ Decaffeinato nero ristretto”).

Vi è in questa prima parte una forte tendenza insomma al prosastico, ma Graziani è tutto meno che prosastico per cui alle volte ci troviamo di fronte a versi spiazzanti, a vere e proprie illuminazioni che come un raggio di sole tra le nuvole spazzano (e strapazzano) il dettato. E proprio come questi versi rompono uno squarcio, ecco che la rottura di una conduttura dell’acqua porta il bar a chiudere e così il barista è costretto a reinventarsi un nuovo lavoro. Un fatto apparentemente banale lo porta a domandarsi chi è davvero (ma d’altronde già l’incipit del disco era indiziario: “Anticipo la sveglia e mi sveglio/ mi guardo la faccia al contrario/ abitudine specchio chissà chi c’è di la”).

Inizia così la seconda parte in cui il protagonista compie una sorta di viaggio iniziatico verso le cantine di casa sua. In ognuno di noi ci sono stanze dismesse, non più utilizzate. Dimenticate. Il protagonista, scopre, in queste stanze quadri che gli fanno capire che una volta (in una volta precedente? Nel passato?) è stato un artista, un pittore che per amore dell’arte ha ucciso e impresso per sempre (col sangue) l’amore della sua vita (sempre che poi fosse lei l’amore della sua vita e non lo stesso soggetto). Insomma da Pirandello si passa a Wilde. Ma sbaglierebbe di grosso chi credesse che ci troviamo di fronte a un tema già sentito. Proprio il fatto che le musiche e i versi si facciano più rarefatti ed evocativi fa sì che l’opera resti assolutamente aperta. Come detto, grandi i testi di Graziani il quale si diverte non solo ad alternare prosa a lirismo, ma memore dell’insegnamento di Pasquale Panella gioca in continuazione con le parole. Paradigmatica in questo senso Eccetera che vede la collaborazione, guarda caso, di Alessandro Bergonzoni. Ma ottima è anche la struttura musicale scritta da Vanni Crociani: stavolta niente pop (ma quello era già scomparso con l’album Liquido) e pochissimo rock. Spazio a sperimentazioni e strumenti classici che si alternano a campionature quasi techno e che esaltano Alessandro Fabbri Michele Barbagli . Molteplici i rimandi o le possibili citazioni, da Erik Satie a De André, da Debussy a Gazzé. Una prova di maturità che lascia senza fiato e che – diciamolo pure – affatica al primo ascolto l’orecchio ormai abituato a giri armonici semplici e scontati.

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