Brunori Sas – Il cammino di Santiago in taxi

Torna con il suo personalissimo terzo capitolo discografico Brunori Sas. Un disco particolarmente atteso dopo i fortunati due volumi precedenti. Il titolo – per citare Battisti – è già indiziario: “Il cammino di Santiago in taxi”. Una sorta di contraddizione in termini. O, peggio, una paraculata! E in effetti tutto il disco è pervaso da questo continuo oscillare di sacro e profano, alto e basso, privato e pubblico, sarcasmo e disperazione. 11 canzoni che poi sono il perfetto specchio dei nostri tempi, dove non si invecchia più, l’estetica ha sostituito l’etica, ed essere di sinistra vuol dire piegarsi “alle logiche del mercato”. In questa ottica, credo, vadano letti anche i capitoli più personali e intimisti dell’intero lavoro. Perché, per dirla con un motto in voga negli anni Settanta, il privato è anche pubblico. A ben guardare, in effetti, questo è un disco che suona molto anni Settanta per riferimenti e per atmosfere. E, parlando di anni Settanta, non c’è dubbio che il primo paragone che viene in mente è quello con Rino Gaetano e Stefano Rosso, per la capacità che ha Brunori di alternare, come si diceva, ironia e intimismo, gioia e dolore. Quasi senza soluzione di continuità. Come un pendolo che oscilla continuamente.

Si comincia con la bellissima “Arrivederci tristezza”, dove in questa caso la contrapposizione – vecchio topos – è tra cuore/mente, passione/ragione (“scusami ancora mio cuore/ se ho fatto l’amore anche senza di te”). Più smaccatamente Gaetaniana (se ci concedete l’aggettivo) alla “Ahi Maria” per intenderci è “Mambo reazionario”, una lucidissima e straordinariamente ironica ricostruzione della evoluzione (involuzione) dell’homo sinistrorum italiano (e di quel partito che – ahinoi – da PCI si è trasformato in PD!). Anni fa si sarebbe parlato di riflusso, qui il tutto si trasforma in un scatenato mambo in cui la rivoluzione è rimandata ad libidum… “E la rivoluzione/ Che Guevara e Pinochet/ adesso ballano felici/ sulle basi di Beyonce/ non si rincorrono più”. Ma se privato è anche pubblico, Brunori non si sottrae in qualche modo a parlare anche di sé come cantautore (“mentre Brunori canta storie d’amore e di cuori a pezzi”), per arrivare a fare un discorso (bellissimo, oltretutto) sul ruolo dell’artista nella società dei consumi. Kart Cubain (e Marilyn) diventano così una sorta di emblema, di agnelli sacrificali della società dello spettacolo… tanto lucidi quanto dolenti.

Ma il pendolo in questo disco oscilla anche per ciò che concerne le scelte prettamente musicali, si passa da pezzi trascinanti e caciaroni a brani intimisti e dagli arrangiamenti essenziali. Ed è qui che forse Brunori ricorda – ah, ancora gli anni Settanta – il De Gregori più essenziale e sperimentale, quello di “Pecora”. De Gregori d’altro canto che viene espressamente citato in “Sol come sono sol” (“la sposa impazzita, la sposa è fuggita”).
Anche per ciò che concerne i testi possiamo riscontrare una sorta di dualismo. Si passa da inserti bassi prosaici a inserti alti lirici, il tutto però condito sempre con il filo sottile dell’ironia. Succede, per esempio, in “Pornoromanzo” dove la strofa bassa e al limite del triviale (“si lo so/ le stelle sono tante/ milioni di milioni/ non rompere i coglioni/ e levati i pantaloni/ che devi fare l’amore/ lo devi fare con me”) sembra subito dopo smentita da una strofa aulica e persino smaccatamente manieristica (“ma attenzione/ se mi lecchi il cuore/ non ti preoccupare/ se dovesse lacrimare/ non ti spaventare/ è per troppo amore”). Contraddizione solo apparente perché poi entrambe devono essere lette e interpretate solo attraverso la lente dell’ironia, appunto, e quindi si possono considerare vere e false allo stesso tempo. Certo alle volte Brunori sembra un poco esagerare nella ricerca del colpo ad effetto come in “Mambro reazionario” (“Alla fine ti sei scordato anche la felce e il mirtillo”) o in “Arrivederci tristezza” (“milioni di libri non servono a niente/ se servono solo a nutrire una mente che mente”) che rasentano una certa auto indulgenza alla Dente. Ma il più delle volte il colpo c’entra il bersaglio come in “Il santo morto” (“Giovanna D’Arco disse:/ Come on baby light my fire/ everybody stand by me”).
Un disco importante, insomma, che si accredita come pretendente per entrare di filato nella cinquina della prossima Targa Tenco…

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