Roberta Giallo – Canzoni da museo
Ci sono tematiche che hanno una sorta di andamento ciclico. Affiorano nel dibattito per poi scomparire e riapparire nuovamente. Una di queste è il rapporto che intercorre tra poesia e canzone. La canzone può essere considerata poesia, ci si domanda spesso. Se invece le consideriamo forme artistiche diverse, seppur affini, come trattarle? Una è sorella maggiore dell’altra? O sono piuttosto due sorelle di pari grado? Domande per certi aspetti mal poste.
Nell’immaginario collettivo, infatti, si è soliti credere che la canzone per essere “elevata” a forma artistica debba essere equiparata alla poesia. Come se il termine “poesia” alla fine fosse una sorta di patente artistica. Senza contare, invece, che come può esistere una grande canzone che si eleva a forma artistica/letteraria, può esistere anche una bruttissima poesia che resta confinata nel dimenticatoio della storia culturale. Dove risiede quindi l’arte? Nel voler, insomma, dare alla canzone la patente di poesia non le si fa un bel favore… perché, appunto, “poesia” non vuol dire necessariamente alta letteratura. Ma allora come trattare la canzone? Per mostrarle davvero rispetto credo banalmente che bisogna considerarla, al pari di un testo teatrale, una forma letteraria… che però non è poesia.
Tutto quest’ampio preambolo per dire che spesso anche i cantautori si sono posti l’annoso dilemma, e quando non lo hanno fatto loro, ci ha pensato qualche zelante giornalista: “Sig. [mettete voi a scelta il nome di un grande cantautore] la sua canzone può essere considerata poesia?”. Così alcuni cantautori hanno preso il toro per le proverbiali corna, decidendo di musicare poesie nate appunto come poesie (e quindi non necessariamente per essere musicate, avendo già una loro musicalità intrinseca). Come si può intuire l’operazione è ad altissimo rischio di fallimento. Meglio, quindi, che ciò sia fatto davvero da un grande cantautore. Ci provò qualche anno fa Angelo Branduardi alle prese con le liriche, seppur tradotte, di John Keats (“Branduardi canta Yeats” del 1986); lo fece la brava Patrizia Cirulli musicando autori in qualche modo fondamentali nella storia della letteratura mondiale nell’album “Mille baci” del 2016 (che gli valse anche una cinquina al Premio Tenco e di cui ne scrissi qui: http://www.lisolachenoncera.it/rivista/interviste/i-mille-baci-alla-poesia/).
Ci prova oggi un’altra delle voci più importanti e originali della canzone d’autore contemporanea, Roberta Giallo, con il disco Canzoni da museo. Se Cirulli e Branduardi si erano cimentati con dei veri mostri sacri della letteratura mondiale, la cantautrice marchigiana (ma bolognese d’adozione) scava invece nei meandri della letteratura italiana contemporanea musicando tre autori: Giovanni Gastel (oltre che poeta anche fotografo di fama internazionale, scomparso recentemente), Davide Rondoni (fondatore, tra le altre cose, del Centro di Poesia Contemporanea), e Roberto Roversi (probabilmente il più noto dei tre in ambito musicale, avendo scritto i testi per alcuni dischi fondamentali di Lucio Dalla). Il risultato è un disco bellissimo, che ci mostra ancora una volta tutto il talento e la grazia di Roberta Giallo. Un lavoro in cui la cantautrice mette da parte certi suoi furori più sperimentali, escludendo ad esempio qualsiasi suono elettronico e lasciando la parte del leone solo al pianoforte e alla voce; così facendo, Giallo recupera una sorta di “classicità” elegiaca che risente qua de là dell’eco dei grandi nomi della musica novecentesca (Satie?). Insomma, le sonorità del disco sono date in quasi tutte le canzoni dal solo pianoforte, dalla voce e da soffusi cori in sottofondo. Certo non mancano inserti che posti in “sottofondo” danno ancora più risalto alla musicalità di cui parlavo prima (penso a Il cielo contro cui Bologna in cui fa capolino una tenue tromba) o ritmiche che sembrano uscire fuori da strumenti improvvisati (Parole). Un disco insomma lontanissimo – grazie a dio! – dalle mode passeggere del presente. Sembrerebbe rimandare anche a questo il titolo del lavoro, Canzoni da museo.
Titolo che però alla fine è ossimorico, non solo perché la poesia – pure sotto mentite spoglie, come questo lavora dimostra ampiamente – è più viva che mai, ma anche perché proprio Roberta Giallo dà veste sonora vivissima a versi che appaiono così lontani da “pezzi da museo” (sempre, poi, che un museo davvero contenga solo opere sottratte allo scorrere del tempo contemporaneo). La bravura – una delle tante – della cantautrice è quella di non forzare mai la mano. Detta in altri termini – e come accennato sopra – la poesia è una forma letteraria che ha una sua musicalità e una sua metrica; musicarla rischia di essere operazione presuntuosa e pretenziosa. Ridondante. Nulla di tutto ciò accade: la musica – quella di Giallo – si amalgama alla perfezione alla musica testuale di Gastel, Rondoni e Roversi (di cui la Giallo recupera alcune liriche scritte per Lucio Dalla e mai poi musicate). Così facendo davvero si riesce a ricreare quella straordinaria forza alchemica che nel corso dei secoli si è via via persa. Perché se è vero che oggi canzone e poesia vivono vite autonome, c’è stato un periodo in cui le due sorelle erano siamesi, attaccate inscindibilmente fra di loro (senza riandare ai tempi dell’Antica Greci, basterà qui ricordare il famoso incontro tra Dante e Casella nel secondo canto del Purgatorio).
Un disco che ci proietta in una sorta di altrove, in un tempo dove non sembra scorrere il tempo, perché si è in un eterno presente, in cui le leggi della razionalità perdono forza. Per farlo ci volevano le parole di tre grandi poeti. E ci volevano le noti di una grande cantautrice.