Max Manfredi – Il grido della fata

 

Scimmie grigie che si arrampicano sulle spalle, treni che sfrecciano sull’Appennino, campi coltivati a nord, re spodestati, polli allo spiedo, camere d’affitto, hotel di riviere, cinema porno, ville diroccate (o in costruzione?)…

L’immaginario immaginifico di Max Manfredi farebbe la gioia di qualsiasi analista. Una miniera di simboli e archetipi che andrebbero sviscerati, analizzati e – forse – compresi. Ma Max Manfredi non è un analizzando, è un artista; né tanto meno chi scrive è uno psicanalista. Per cui non spetta a noi cercare di interpretare e capire tutta la mole di personaggi e luoghi cantati dal cantautore. La nostra gioia consiste nel poterlo ascoltare, nell’immagazzinarlo nel nostro inconscio personale (e collettivo) questo immaginario. Insomma la seduta psicanalitica sarebbe ad appannaggio del solo psicanalista che – come detto – ne godrebbe solitario, la canzone è invece rito collettivo di cui tutti possiamo beneficiare. E c’è molto da beneficiare da questo splendido nuovo disco del cantautore genovese, Il grido della fata, che si pone ai livelli dei massimi capolavori quali L’intagliatore di Santi e Luna persa.

Un disco che conferma la grandezza di Max Manfredi ma anche il suo essere assolutamente fuori non solo dagli schemi – chi azzarda paragoni con De André pare davvero fuori strada – ma anche da un tempo e da un luogo determinato. La prima reazione, infatti, quando si ascoltano anche queste nuove dodici tracce è quella di una sorta di spaesamento. L’ascoltatore perde totalmente le coordinate spazio-temporali. Entriamo, in sostanza, in un Mondo Altro, disperso tra i ponti di una nave nipponica in guerra, sale da concerti e ville forse mai davvero esistite. È un Altrove, quello di Manfredi, dove oltretutto vengono scardinate le regole della non contraddittorietà. Come è possibile, per dire, che la scimmia che non esiste continui a inseguire il Nostro con tanto accanimento (Scimmia grigia)? Che dire, poi, dei personaggi cantati da Manfredi? Chi è Malvina, una donna reale, una fata o un personaggio letterario (tratto da Tolstoj o Macpherson)? Chi è il Mister che sostiene il cantautore (e si fa a sua volta sostenere)? Chi è il Guastamori che “nelle notti estive/ assume Santa Barbara/ perché nell’afa delle stive/ pretende di cavarsela”? Chi è il re (ancora un re dopo quello de Il regno delle fate) spodestato e sbeffeggiato anche dal suo giullare? Chi è Cleopatro “che scendeva le scale”?

 

Inutile forse domandarselo. I luoghi e i personaggi cantati da Manfredi esistono solo nella sua testa, nel suo inconscio. Ma paradossalmente, proprio, per questo sono più veri e più vivi dei personaggi e dei luoghi realmente esistenti. Perché essi vanno a toccare nuclei profondi della nostra psiche. Ed è anche per questo, credo, che Max Manfredi è davvero oggetto di culto da parte dei suoi ammiratori. Egli, infatti, li costringe a non rimanere mai passivi nella fruizione della canzone. Li risveglia dal loro torpore “borghese”, dal loro sprofondare “nel divano dell’Ikea” (con riferimento ai famosi divani di baudelairiana memoria?).

Alla fine le canzoni di Max Manfredi sono piccole mise en abyme (penso soprattutto alla conclusiva Il grido della fata dove la fata si rivolge direttamente al cantautore per parlare – per metafore – del ruolo dell’arte in questo “tempo balordo”), brani in cui i piani narrativi si sovrappongono. Piccoli spezzoni onirici in cui il protagonista (e quindi l’ascoltatore) è al tempo stesso osservatore esterno e protagonista (come accade nel finale de Il regno delle fate). Esemplare da questo punto di vista è Canzone del finale, forse l’epitome dell’intero lavoro. L’Io narrante, in media res, entra in una villa senza essere invitato. C’è una festa con tanto di musicisti (chi professionista chi dilettante), ma non si capisce se gli invitati sono reali o fantasmi (echi di Shining?). La stessa proprietaria della villa, sempre che lei sia poi la proprietaria, potrebbe benissimo essere una fata. Scoppiano improvvisamente i fuochi d’artificio che segnalano la fine della festa. Con un salto temporale ci ritroviamo così alla mattina successiva e la villa è adesso deserta, tanto che l’Io si domanda se la villa avesse davvero mai contenuto vita o se fosse stato tutto il frutto della sua immaginazione. Quale splendida rappresentazione di un sogno ad occhi aperti!

Ma al tempo stesso allegoria dei fantasmi che da sempre animano l’anima dell’uomo Max Manfredi. Così come, in altra possibile lettura, della realtà sociale contemporanea. Perché se è vero che l’autore Manfredi è fuori dal tempo, l’uomo Manfredi è inevitabilmente legato al tempo storico che sta vivendo. E ciò che vede è l’inferno (“Apro le finestre ed è l’inferno”): una moltitudine di personaggi in cerca di una Verità da trovare ormai nel proprio telefonino (La scimmia grigia… che però potrebbe benissimo anche essere correlativo oggettivo della depressione). La vita è una sorta di sciarada difficile ormai da capire. Max Manfredi è il più apolitico tra i nostri cantautori ma, paradossalmente, al tempo stesso anche il più politico, perché ha un modo tutto personale di sondare e rappresentare le brutture del Potere e di chi supinamente vi si adagia. Ma, appunto, le sue canzoni si aprono a più piani di lettura. E se la lettura sfugge, poco male.

Non mancano, intendiamoci, elementi decisamente più manifestamente malinconici anche in questo lavoro, come in Polleria dove la vista e soprattutto l’odore dei polli allo spiedo riportano alla memoria gli amici che non ci sono più. Il tempo che passa, la morte da sempre fanno capolino nella poetica di Manfredi. Così come sempre l’unico rimedio alla negazione della vita non può che essere l’amore (L’elicriso, anche se in questo caso il tema è poi quello dell’emigrazione) nonostante il continuo lavorio del Guastamori. Ed è proprio per l’assenza dell’amore che il re viene spodestato e grida disperato: “Ora fammi dire, ora che ti ho sempre amato,/ tanto non c’è rischio, so che indietro non ritorni” (Rosso rubino).
Se musicalmente si poteva paventare l’uso dell’elettronica, tale paura evapora già al primo ascolto. Ritroviamo intatto anche ne Il grido della fata, tutta la poetica musicale di Manfredi, tra echi balcanici e orientali, rimandi all’opera classica (si senta l’incipit di Rosso rubino che non a casa, credo, presenta un riferimento alla Carmen di Bizet), ballate con echi madrigali (Elicriso), elementi tipicamente novecenteschi. L’elettronica, insomma, in nessun modo appesantisce il dettato. Questo anche grazie all’ottimo lavoro in sede di arrangiamento di Marcello StefanelliGabriele Santucci e Fabrizio Ugas.

Che dire poi dei testi? Pochi in Italia sanno scrivere con Manfredi. Mi perdonerà, spero, quindi il lettore se accennerò almeno a qualche figura retorica qui presente: le sinestesie (“Come l’immagine bionda e calda/ …/ dell’uccello perso nella boscaglia”, “Apri a un odore di silenzio”); le similitudini (“La neve in cielo che frulla via/ come biglietti della lotteria”, “Le fronti alte come chiese”); i giochi di parole (“Perché nell’afa delle stive” al posto di “estiva” che fa il paio con “Apro le finestre ed è l’inferno” al posto di “inverno”); le allitterazioni (“Sono convitti di giorni grigi/ come grigie giacche di gros grain”); le personificazioni (“Sta barcollando l’alba”, “Bruca l’erba dei tetti il sole al tramonto”); i chiasmi (“Amori in folle e folle in amore” in questo caso con polisemia); le paronomasie (“È sapere sapore”). Ricercatissima è al solito poi la scelta lessicale dove termini “alti” e ben poco usati nel panorama musicale italiano – quali granigliaasfodelochiffero (il tipico cornetto genovese), manente – si contrappongono a inserti volutamente “bassi”: “Dove trincano tutti/ e c’è la gara di rutti”.

Max Manfredi è un gigante, un unicum nel panorama musicale italiano. Il grido della fata il suo ennesimo capolavoro.

P.S.: “Andrea, vuoi sapere chi è Cleopatro? Cleopatro Cobianchi, l’inventore di quell’incredibile creazione che fu l’albergo diurno. Ma va bene che uno si immagini chiunque” (Max Manfredi)

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