Fabio Cinti – Al blu mi muovo

Togliamoci il dente subito, volete?
Non c’è stato quasi album di Fabio Cinti in cui non sia stato tirato in ballo da parte della critica specializzata il nome di Franco Battiato quale suo vero nume tutelare (i due, oltretutto, hanno anche collaborato nel corso degli anni). Chissà se anche per tale motivo, due anni fa Cinti diede alle stampe un bellissimo riadattamento con quartetto d’archi de “La voce del padrone”(disco che vinse la targa Tenco nel 2018). Molti avevano letto in quel lavoro il tentativo di rompere, in qualche modo, i ponti col passato. Tracciare una sorta di linea separatoria rispetto al cantautore siciliano. Bene, cosa fa invece Cinti nel 2020? Dà alla stampe – oltretutto in epoca di lockdown – un nuovo album, Al blu mi muovo, che più “Battiato style” non potrebbe essere, per impostazione della voce, per alcune scelte armoniche, persino per l’utilizzo di certe scelte lessicali (la sinestesia “pensieri neri”). E ora, quindi, che si fa, come lo si recensisce questo nuovo lavoro discografico di Fabio Cinti? Semplice, andando a recuperare le parole che lo stesso Cinti riferisce a Francesca Ceccarelli (per xl.repubblica.it): “Dico che c’è voluto tempo [per non snaturalizzare la mia originalità rispetto all’influenza di Battiato], perché il mio linguaggio di musicista, come ho detto altre volte, la mia grammatica, l’ho imparata dal suo linguaggio. Così, inevitabilmente, si rischia di essere solo epigoni. Oppure, invece, se si ha qualcosa da dire che viene fuori, allora semplicemente lo dici con quel linguaggio”. Eccola la chiave d’accesso. Chi impara una grammatica alla fine non può che in qualche modo “piegare” quella grammatica alla propria cifra poetica e stilistica. Nessuna emulazione, nessun plagio. Si chiama grammatica poetica-stilistica. Ogni poeta, ogni musicista ha avuto la sua.

Il dente è tolto. Possiamo ora parlare di cose serie di questo ultimo lavoro?
E la prima cosa seria da dire è che questo Al blu mi muovo è un disco bellissimo, a mio avviso il migliore di tutta la produzione di Cinti. Quello in cui la ‘grammatica’ di cui si parlava prima raggiunge la piena maturità. Un disco estremamente dolente in cui il blu, evocato nel titolo, è proprio quello della tristezza, della malinconia, dell’angoscia esistenziale (avete presente il periodo blu di Picasso?), dell’incertezza (anche rispetto alla propria professione di musicista). Un disco estremamente autobiografico in cui ci si mette a nudo, in cui si mostrano le proprie fragilità umane (quelle che di solito si tende a nascondere, perché – suvvia – “se ti facessi vedere il mio lato debole cosa faresti?” per dirla con le parole di Roger Waters).

Per certi aspetti “Al blu mi muovo” può anche essere letto come un concept album sulla riscoperta dell’essenzialità rispetto a un mondo utilitaristico in cui tutti vanno di fretta. C’è bisogno di quiete, di riflessione e soprattutto di pensiero, di salti coscienziali. Un recupero dei valori etici e morali contro i mostri dell’Ego (“Solo chi è legato a se stesso chi/ si nutre della propria personalità/ resta nel fondo come un relitto/ nella solitudine di ogni cosa che non cambierà”) e del materialismo. Insomma, Tutto il disco sembra pervaso da questa forza spirituale che si cerca disperatamente, come si ricerca un senso che sembra ogni volta sfuggirci (per inseguire false chimere), un’epifania (“Non è impossibile vedere i giorni tutti uguali/ fermare l’attimo della felicità/ capire l’alchimia di un momento irripetibile/ e vivere più in alto, un po’ più in là/ dove il buio, col diradarsi dei pensieri, diventa luce”). È una ricerca, quella di Cinti, che spesso sembra risolversi in smacco, ma che è al tempo stesso necessaria, dolorosamente necessaria.

In quasi tutto il disco, Cinti si rivolge a un Tu non sempre ben identificabile: una forza spirituale, una persona cara che non c’è più (Da lontano), un amore (fosse anche occasionale) che però solo a tratti sembra dare segni di sé… per barlumi. Ma forse il Tu è proprio l’ascoltatore a cui Cinti chiede di rendere conto della propria esistenza. Siamo, insomma capaci – noi ascoltatori, noi uomini di questa società – di quel balzo in avanti che viene evocato programmaticamente nell’ultimo brano del disco? Una canzone – Il grande balzo in avanti, appunto – in cui il Tu è una persona cara persa, non più apparentemente presente nella nostra vita che però continua a dare segni di sé, quanto meno nella memoria (altra tematica forte di tutto il lavoro): “In tutti questi anni sei rimasto tu/ a indicarmi una strada diversa/ tra me e le mie illusioni/ E io l’ho seguita ascoltandoti/ anche quando non c’eri più/ quando non c’eri più/ guardando una foto appesa/ come quel ricordo semplice/ di una vita fragile”.

Altro elemento presente è poi, quello delle forze della natura. Cinti da diverso tempo si è rifugiato nella campagna veneta e tale dato biografico riveste un ruolo importante anche a livello poetico, perché la natura ha tempi e regole del tutto proprie che nulla hanno a che vedere con la frenesia dei tempi e delle regole umane. A livello lessicale ciò determina l’utilizzo di termini quali ‘albero’, ‘polline’, ‘gerani’. Se l’uomo è finito, mortale, la natura – così come l’universo, le stelle, i pianeti – non lo sono. L’unica possibilità di fuga, allora, può essere data proprio dalla necessità di tornare natura, di riacquistare la forza animale, di inabissarsi come i pesci per fuggire la frenesia umana… come se solo in questo modo si potesse raggiungere il Cinti uomo: “Allora ti consiglio un paio di branchie/ ti danno il tempo per allontanarti/ nei mari più lontani dalle terre/ e con i giorni impari le correnti/ e i linguaggi silenziosi degli abissi”.

Un  discorso a parte meriterebbe poi la tematica del tempo (inteso sia come momento che si sta vivendo che come scorrere inevitabile delle stagioni della vita). Ho accennato alla memoria, se questa da una parte è preziosa, dall’altra rischia però di farci perdere il senso del presente. È un rischio che corrono gli anziani, esattamente come i giovani sembrano scordarsi il passato (familiare e non solo) da cui inesorabilmente provengono.

Un lavoro pienamente maturo non solo per forza della scrittura dei testi, ma anche per la struttura musicale di tutti i brani, in cui le varie anime del cantautore emergono chiaramente (dall’insegnamento dei grandi nomi della canzone italiana agli amati Pink Floyd più psichedelici, dalle chitarre dal vago suono folk all’elettronica). Tra i punti più alti dell’intero album Tra gli alberi combatto, che inizia in chiave acustica, con l’incedere della chitarra acustica (che prosegue per tutto il pezzo), per poi virare verso vette sonoricamente più “spigolose”, con l’avvento del piano e della voce distorta; Giorni tutti uguali in cui la voce del padrone la fa proprio… la voce, splendidamente modulata; e poi ancora le bellissime intro di pianoforte in Da lontano e in Amore occasionale.

Semplificando, verrebbe da dire, poi, che tutte le tematiche del disco sembrano presenti nella copertina: un bambino che sta giocando correndo (il recupero dell’innocenza infantile?) o che sta per cadere (il pericolo del nuovo percorso che si sta affrontando?) immerso nella natura sotto un cielo che non promette sole (ma forse neppure pioggia). E in cui spariscono nome dell’autore e titolo (quasi un annientamento del proprio Ego o una voglia di ripartire per una nuova fase senza “sovrastrutture”).

Insomma, ascoltando questo lavoro mi è tornata in mente la vecchia massima dello stolto che quando gli si indica la luna guarda il dito. A voi decidere se guardare il dito (Battiato) o la luna (Cinti)!

P.S: piccola postilla finale per gli amanti delle citazioni. Scorgo in Vieni con me un riferimento (omaggio?) all’ultimissimo Roger Waters in certi passaggi armonici… che sia anch’esso un piccolo volume di grammatica? O forse sono io che sto guardando il dito.

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