Roberta Barabino – Il tempo degli animali

La grazia è rimasta intatta. Quella grazia che, d’altronde, era già la cifra stilistica del primo suo sorprendente album, Magot (in finale tra le Targhe Tenco per l’opera prima nel 2011). Dopo ben otto anni, Roberta Barabino dà finalmente alle stampe il suo secondo e atteso cd, Il tempo degli animali.

Intendiamoci, non che in questo periodo di silenzio discografico non sia accaduto nulla nella vita della cantautrice genovese, anzi. Fra tutte, la maternità. Ed è un’informazione che, al di là del mero dato biografico, si deve ben tenere a mente nell’analizzare questo nuovo lavoro, dal momento che tutte le canzoni sono state scritte proprio durante la gravidanza. È molto probabile che le atmosfere oniriche che si respirano lungo tutto il disco nascano anche da questo fondamentale aspetto. Quasi non volesse svegliare la creatura che sta crescendo dentro di lei, Barabino sembra aver voluto abbassare ancor più la luce; i suoni si fanno più soffusi, tra chitarre acustiche, banjo e ukulele. C’è, insomma, in questo Soggiorno obbligato un Uovo in bilico, che si deve covare con tutta l’attenzione che solo una madre sa dare. Spetta anche a noi, ascoltatori, non fare rumore, per non spezzare l’incantesimo.

Non mancano, certo, anche momenti più “sporchi” come l’intro leggermente angosciante proprio di Uovo in bilico, ma in generale il tutto suona molto acustico (nonostante la presenza in sede di arrangiamento di un formidabile “incursore” come Tristan Martinelli), anche grazie al prezioso lavoro di musicisti quali, tra gli altri, Raffaele RebaudengoLorenzo CapelloStefano Cabrera e Tom Stearn e, in generale, alla scelta di utilizzare strumenti da musica “da camera”. Il tempo degli animali si muove, insomma, tra ballate folk, teneri tanghi e ritmi valzerati, creando nell’ascoltatore uno strano effetto di dilatamento del tempo. Perché, inutile negarlo, già dopo il secondo ascolto, restiamo imprigionati nelle spire che Barabino ha sapientemente saputo intessere. Siamo entrati nella sua stanza (di luci abbassate e suoni soffusi, orologi a cucù, carillon), lontanissimi dal mondo, il tempo – cronologicamente inteso – si dilata fino a perdere di importanza: abbandoniamo il ritmo degli umani per acquisire quello degli animali.

Chiariamo, non che Barabino non si interessi a ciò che sta succedendo o che vede attorno a lei. Nulla di tutto ciò. Se la grazia, intesa come capacità di non alzare mai la voce, di non uscire da un mood che potremmo definire “colloquiale”, è rimasta intatta, lo è anche la grande capacità di raccontare storie. Alcune sono probabilmente inventate e comunque narrate in terza persona, come quella di Marina che, inaspettatamente, si innamora ballando un tango un po’ sgangherato (Marina quest’anno balla il tango), oppure quella del pescatore che si invaghisce di una carpa (Bella baffuta). Altre sono, invece, decisamente biografiche come l’omaggio all’amico – e per certi aspetti mentore – Bob Quadrelli, personaggio davvero unico dell’underground genovese (geniale fondatore e front-man dei Sensasciou, vincitori di una Targa Tenco nel 1997 con Generazione con la X), che per primo ha creduto in lei e l’ha spinta ad eseguire in pubblico nei locali cittadini i suoi pezzi (Chi sei); oppure come il ricordo della nonna a cui si chiede, ancora, consigli in sogno (Scusa nonna); o come il richiamo alla maternità in cui i ruoli vengono rovesciati, per cui è il figlio, che deve ancora nascere, a parlare alla madre dicendole che è lui ad aver scelto lei prima ancora “di essere un’entità tangibile” (per la sua capacità di vedere la bellezza del mondo) e non il contrario (Genova New York).

È, insomma, quella di Barabino una poetica delle piccole cose quotidiane, se fossimo in letteratura ci aggireremmo tra i meandri dell’antimodernismo (funzionali, da questo punto di vista, le rime facili, spesso con termini tronchi e monosillabici). Una scelta che a volte può essere azzardata, perché si corre il rischio di apparire un poco retrò o cadere nel retorico.
Ma quando si ha la grazia di saper scrivere e cantare, sottovoce, come Roberta Barabino è un rischio che si può ben prendere.

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