Cristina Donà – Così vicini

L’amore – ricordava il filosofo Norman Brown – è, già dal nome, “toglimento di morte”. A-mors, appunto, unico sentimento che può dare un Senso al nostro esistere e così contrapporsi al Non Senso della Morte. È solo una delle tante chiavi di lettura, ma davvero questo splendido Così vicini – che segna il ritorno discografico dopo tre anni di Cristina Donà (ancora una volta coadiuvata da Saverio Lanza) – può essere interpretato come una sorta di concept album sul tema dell’Amore. In tutte le sue sfaccettature.

Amore prima di tutto nei confronti del proprio compagno, il quale, però, più delle volte appare assente, lontano fisicamente o mentalmente (“Non importa, non importa, so che sei molto impegnato,/ ci vedremo un’altra volta”). Tanto che il titolo dell’album più che assertivo appare ossimorico ed ottativo: “Seduto sotto a un albero che dici/ tutto è possibile se stiamo vicini, così vicini” (anche se nello script di copertina appare un punto molto ambiguo tra i termini ‘così’ e ‘vicini’). Se ci sono distanze, spetta all’Io narrante trovare un senso a tale distanza o quanto meno colmarla. Emblematica in questa senso è una delle canzoni più importanti dell’intero dico, Ho chiesto di te, dove – alla maniera dei trovatori medievali – si cerca la persona amata attraverso un dialogo con gli elementi della natura, quasi che loro celassero dei segreti per noi irraggiungibili: “Ho chiesto di te alle foglie cadute,/ alle ombre allungate sui miei passi senza direzione./ Ho chiesto di te alla schiena di un cane che correva./ A fine marzo il sole riposava dentro a un inverno mancato”. Sarà il semplice nome della persona (e non la sua presenza fisica) a creare una sorta di epifania, un risveglio completo dei sensi. Come in un rito sciamanico, evocare il nome vuol dire dargli presenza: “Ed ho capito che mi basta, che mi basta il tuo nome/ per far esplodere le rose su questo balcone”. A questo punto assistiamo a un diametrale rovesciamento delle prospettive iniziali, adesso sono gli oggetti a chiedere all’Io narrante (artefice del Miracolo) della persona amata: “Hanno chiesto di te le sedie, il tavolo, il divano,/ un soprammobile da poco ritrovato,/ era nascosto come me che ti aspettavo”. La Parola, così, diventa essenziale nella capacità, come si diceva prima, di compiere il miracolo della presenza. Davvero mai come in questo lavoro Donà dà corpo all’idea che “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio”, perché la Parola ha il dono di evocare l’Amore nel momento stesso in cui si nomina.
Ho parlato prima di epifania, perché l’Amore di cui parla Donà mette sempre in contatto con una sorta di divino, di assoluto. Il corpo stesso dell’amato è elemento spirituale, tramite verso la trascendenza: “Sacro come una visione,/ il tuo corpo è come luce che si dona./ Luce di ogni vocazione, torni tra le dita ancora”. Ed ecco, allora, che il discorso si allarga perché in Così vicini l’Amore coinvolge tutto il Creato (numerosissimi i riferimenti ai pianeti e alle costellazioni, che rimandano alle distanze siderali) e la Natura. L’uomo contempla nella sua piccolezza la grandiosità degli spazi, ne resta sbigottito (“Come siamo piccoli ma ci crediamo grandi da scoppiare”), ma al contempo il contatto con la Natura è esso stesso altra epifania: “A braccia aperte qui distesi, felici prigionieri/ di questa terra viva che ci colora”. Non sorprende, quindi, che l’ultimo atto d’Amore del disco sia rivolto proprio alla bellezza e alla grandiosità della Natura: “Mi piace venirti a guardare/ dall’alto delle collina./ I prati diventano mare/ e l’ultima luce trema”. E proprio qui avviene l’ennesimo Miracolo, quello del panismo. L’Io narrante si fonde con il Creato e a quel punto non vi è più bisogno neppure della parola: “Il respiro sa di gioia eterna./ Tu poi mi lasci sempre senza parole”.

A proposito di parole, l’ultima annotazione riguarda i testi. Se in Ritorno a casa a piedi ci trovavamo di fronte a versi lunghi, quasi vi fosse la necessità di dare maggiore voce e aria ai propri pensieri, in Così vicini Donà torna invece a prediligere un verseggiare breve. Ciò non deve far pensare ad un’assenza di ispirazione, ma la scelta si integra perfettamente nel discorso che andavamo facendo prima. La ricerca del Senso e dell’Amore, il contatto con la Natura e il Creato generano una sorta di rarefazione della parola, di essenzialità. Non sorprende, quindi, che la figura retorica assolutamente predominante sia l’anafora; perché essa altro non è che il corrispettivo di un balbettamento estatico. Proprio come estatico è, sempre, l’Amore.

Pubblicato su http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/cosi-vicini/

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