Piccola Bottega Baltazar – Ladro di Rose

C’è ancora molto Dino Buzzati nell’ultimo bellissimo album della Piccola Bottega Baltazar, dopo Il disco dei miracoli. Per meglio dire, c’è ancora molto del suo insegnamento, della sua arte. Perché Ladro di rose è uno strepitoso esempio di realismo magico. Quella forma narrativa – di cui appunto Buzzati era maestro – in cui si mescolano elementi della realtà con costrutti tipicamente fiabeschi. Una compenetrazione che porta quasi ad un effetto di straniamento da parte del lettore. Per cui convivono nella stessa pagina inserti lontanissimi (apparentemente) tra loro. Ed è proprio lo straniamento e il continuo rovesciamento delle prospettive quello che qui porta avanti il gruppo veneto.

Ecco quindi convivere senza soluzione di continuità: la fiaba e la realtà; la campagna e la città; il lessico alto e quello basso; la lingua e il dialetto (cosa d’altronde normale in una delle regioni più dialettofone d’Italia); motti popolari veneti e termini quotidiani cronachistici; il presente, lo storico e l’ancestrale altrove; De André, Calvino e i Ricchi e poveri (ne La donna del cowboy, con effetto stridente, vengono cantati e decontestualizzati alcuni versi di Sarà perché ti amo).

La realtà appare deformata grazie a questo modo di descriverla, ma paradossalmente forse proprio per questo (per averla assurta a elemento fiabesco) appare più reale della realtà stessa. Perché quello che ci viene descritta alla fine è proprio l’attuale nostra società. Una società malata e corrotta, dove crescono ecomostri a cui ci siamo stancamente abituati (L’ombra del caliburo), dove si vive in metropoli degradate (La donna del cowboy) e dove sonnecchia gente ormai ammansita dall’impero televisivo (Nostra Signora delle Antenne). Un terreno arido dove in ogni modo provano lo stesso (come la ginestra di leopardiana memoria) a crescere le rose.

È rosa, per esempio, l’amore, vero leitmotiv del disco. L’amore fonte di sofferenza («È solo un po’ di mal d’amore,/ la causa dei giorni bui», Stefania dorme vestita), ma anche speranza di riscatto, esigenza di contatto (Dolce corpo di sposa), luogo di fuga verso l’Altrove («A piedi o col risciò, in moto e in canoa, in bici o in metrò io prenderò la via./ Per te, io viaggerò”, Barche e nuvole).

Così come è rosa la poesia, la quale si ritrova nei posti meno pensabili: per esempio, nelle tasche del profugo afgano (morto a 17 anni nel tentativo di raggiungere il Belpaese) Zaher Rezai, di cui vengono citati alcuni bellissimi versi: «Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore/ che riuscirò infine ad amarti o morirò annegato/ giardiniere, apri la porta del giardino/ io non sono un ladro di fiori/ io stesso mi sono fatto rosa/ non vado in cerca di un fiore qualsiasi». Ed è forse proprio nello straordinario (nel bene e nel male) caso di Zaher che si riassume tutto il senso del disco: poesie e prosa, fuga e morte, speranza e degrado.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *