Silvia Dainese – 11

Sembra quasi che una linea sottile unisca alcune tra le più innovative proposte musicali genovesi femminile negli ultimi anni. Una esigenza profonda di scavare dentro se stessi, mettere a nudo i propri malesseri, le proprie fragilità (sempre che poi di fragilità si tratti!).

Accade nei lavori di Cristina Nicoletta e di Sabrina Napoleone; proprio sull’Isola avevamo parlato del disco di Valentina AmandoleseNella stanza degli specchi, come di una sorta di seduta psicanalitica. Accade qualche cosa di simile anche in questo bellissimo lavoro di Silvia Dainese, “11”. Anzi con Dainese per certi aspetti si va ancora più in profondità, siamo oltre i recessi del conscio, ci aggiriamo in quelle zone di confine (chissà, forse un grande poeta come Caproni li avrebbe definiti luoghi non giurisdizionali) della psiche in cui la coscienza perde lucidità e si obnubila.11 allora non è solo un numero, ma il doppio di 1. Un 1 che si sdoppia senza, però, riuscire a diventare 2.

E forse è proprio per questo che quello di Dainese è un disco che fa male, perché a tratti si insinua nelle nostre ferite dell’essere (per citare ancora un grande poeta, Mario Luzi) come una lama di coltello nel burro. Silvia sembra mettersi a nudo, come si diceva all’inizio, quasi senza pudori, parlando di bipolarismo, di follia, di malesseri esistenziali con un’essenzialità quasi brutale: “Libera, in croce, normale, duale, depressa, introversa, nervosa,/ reale, stronza, dolce, sensuale, asceta, bipolare” (Pelle come limone). Un grido di angoscia che si trasforma persino in urlo inintelligibile, senza vero significato, pregrammaticale: “Les fore Chin Mbira”. Come nel famoso gioco-simbolo degli anni Ottanta, c’è un fantasma ad ogni angolo della nostra vita pronto ad inghiottirci. Ma se il Pacman rimanda al gioco, al ludico dell’infanzia e dell’innocenza, diventare grandi invece vuol dire mescolare alla Coca cola (ultimo rimando della fanciullezza?) i liquidi corporali del dolore: “Diventare grandi è una cosa liquida, pianto gioia sudore sangue e Coca Cola” (Pacman). Un possibile rimedio, allora, è la fuga nella poesia, se non fosse che oggi, nella società utilitaristica, la poesia è considerata follia: “Se ti scrivo una poesia chiamatemi pure pazza ma resto a casa per la poesia/ chiamatemi pure pazza se piango per la poesia”. Non sorprenda se prima abbiamo espressamente citato due poeti, proprio perché la poesia è uno dei grandi protagonisti del disco.

D’altronde l’intero album è ispirato ad un’opera cinematografica poetica, surrealista e visionaria, Le sang d’un poet di Jean Cocteau. Ma la poesia fa capolino nel disco anche nella costruzione dei versi, interessantissimi. Con parole che si allungano o si accorciano (nella dizione) a seconda dell’esigenza metrica, così come accade per gli accenti delle parole che si possono trovare spostati in avanti o indietro (un espediente che in termine tecnico si chiama diastole o sistole). Moltissime poi le figure retoriche, in particolare le similitudini e le sinestesie. E ancora l’alternarsi di versi di intenso lirismo accanto a inserti assolutamente prosaici, come nello splendido incipit di O la luna in gola.

Ma la vera sorpresa, quanto meno per chi conosceva i precedenti lavori di Silvia o aveva avuto modo di ascoltare le prime versioni di alcuni brani, sta negli arrangiamenti dei pezzi curati da Momo Riva. Messa da parte la chitarra acustica, Dainese propende per un sound elettro pop con abbondante utilizzo di synth, batterie elettroniche e suoni campionati. Un suono che sa molto di anni Ottanta (Baciami e odiami strizza l’occhio, per esempio agli Eurythmics di Sweet dream). Quando, appunto, si poteva ancora giocare col Pacman.

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