Max Manfredi – Dremong

È un’apoteosi di suoni, parole, colori questo nuovo attesissimo disco di Max Manfredi, Dremong. Un disco talmente ricco e corposo da apparire quasi caotico, incoerente. Ma – sempre che poi la definizione sia corretta – è un’incoerenza che è indice di grandezza. Perché Dremong è davvero un disco totale. La testimonianza estrema – quasi commovente – di uno dei più grandi cantautori italiani viventi che si domanda (ci domanda?) se ha ancora senso fare, in un certo modo, questo lavoro nel nostro paese. Se il precedente e pluripremiato Luna persa poteva essere letto come un album unitario, qui tutto sembra invece sfaldarsi, muoversi in mille direzioni diverse, alle volte persino opposte.

I detrattori diranno che ci troviamo di fronte a un disco riconoscibilissimo. Gli estimatori ribatteranno che mai come questa volta Manfredi si è messo a sperimentare. Il fatto è che entrambi hanno ragione. Perché Dremong – e come potrebbe essere altrimenti – è un disco visceralmente di Max Manfredi; ma è anche, al tempo stesso, un lavoro totalmente diverso da tutti i suoi predecessori. Mai come questa volta il cantautore genovese si è divertito a battere tanti e variegati percorsi sonori; alcuni sono a lui più familiari come l’etnica Finisterreo la rebetika Sangue di Drago; altre strade, invece, sono poco frequentate come il rock di Sestiere del molo (che rimanda ai primissimi dischi di Max), o del tutto inusitate come il progressive di Dremong e Anni Settanta o l’inserto new wave presente in Rabat Girl. Certo, in questa voglia di “sporcarsi le mani” un ruolo determinate lo hanno avuto Fabrizio Ugas, che ha curato gli arrangiamenti di tutti i pezzi, ed Elisa Montaldo (già tastierista del gruppo Il tempio delle Clessidre) autrice della musica della Title track. Ma ricchissimo di suoni e trovate, Dremong, lo è anche da un punto di vista prettamente testuale. Manfredi si sbarazza in un colpo solo dei genovesismi (che invece avevano caratterizzato la sua produzione precedente, pur non essendo lui un dialettofono) e dei riferimenti topografici alla sua città natale (se si escludono i “Bagni Medusa”, che però potrebbero trovarsi in qualsiasi altra città di mare); ma fa incetta di forestierismi (“mangia calentita sull’imbarcadero/…/ A ogni cucaracha piace la sua mamma/ Nessun musicista legge lo spartito/ bevono le birre parlano llanito”) e di parole lontane anni luce dall’attuale produzione musicale (“asfodelo”, “sfacelo”, “favo di stelle e mantra indùf”). Non si tratta, sia chiaro, di barocchismo o – peggio – di ostentazione culturale ma ricerca sonora, perché, come ama ripetere lui stesso, la canzone è un’invenzione artistica composta da una parte poetica che è la musica e una musicale che è il testo. Ecco, allora, spiegate le tante figure retoriche di suono come le paronomasie (“indirizzi intirizziti”, “amore amaro”), le allitterazioni (“Sembra un souvenir delle Isole Felici”) o le figure di significato (“di campane dai campanili”). Ma tutto il disco – come si diceva all’inizio – è un trionfo di giochi linguistici, basterebbe citare in questo senso uno dei pezzi più alti dell’intero album, come Piogge, o la splendida personificazione del temporale in Sestiere del Molo: “senti rotolare i tuoni nel biliardo del Cral del cielo” che rimanda a Fado del dilettante dove “rotola un temporale”.

Max Manfredi è artista innamorato tanto della nota che della parola quasi che tra le due non ci fosse soluzione di continuità. Ecco, l’amore. Ho parlato prima di incoerenza, eppure a ben guardare una sorta di fil rouge che unisce tutto il disco esiste ed è, appunto, l’amore. Mai prima di Dremong egli aveva così parlato, descritto, raccontato l’amore. Certo, sempre a modo suo; alle volte, per esempio, inserendolo in storie tanto bislacche quanto esotiche che sembrano uscite dalle pagine di Alvaro Mutis e del suo gabbiere Maqroll (penso in particolare a Rabat Girl).

E in effetti tutto Dremong è uno straordinario atto d’amore e di rabbia; amore e rabbia verso una donna, amore e rabbia verso la solitudine (“Poi magari a Sestiere del Molo o in un altro chissà dove/ tu domani ti ci trovi solo e non sai se c’è del sole o se piove/ ti ci trovi con la giacca a vento, vento di mare, vento d’altura/ ti ci trovi a battere il tempo, arcobaleno e segatura”), amore e rabbia verso l’attuale situazione storica e politica (quella in cui i Boy Scout di inizio anni Settanta hanno prima indossato le armi della Protesta per poi tornare all’ovile del Potere in Anni 70). Ma soprattutto amore e rabbia verso il proprio mestiere, verso la musica. E d’altronde che cosa è il Dremong, questo orso tibetano da cui i cinesi estraggono il fiele, se non la perfetta allegoria del musicista costretto a secernere bile che altri consumeranno.

E nel caso di Manfredi è una bile di grande, grandissima classe!

Pubblicato su http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/dremong/

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