Francesco De Gregori – De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto
Di primo acchito, si potrebbe correre il rischio di trattarlo quasi come un disco minore – o un semplice divertissement – questo nuovo lavoro in cui Francesco De Gregori traduce undici canzoni di Bob Dylan. Si correrebbe il rischio e ci si sbaglierebbe di grosso. Perché De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto è, invece, uno dei più bei dischi in assoluto del Principe. Un disco degregoriano al 100 per cento. E non certo perché De Gregori da sempre “imiti” il cantautore di Duluth (interpretazione tanto semplice quanto risibile)! Ma perché da sempre De Gregori ha introiettato la poetica del cantautore di Duluth. Basti pensare ai suoi fulminanti inizi in medias res, al montaggio delle sequenze strofiche con evidenti salti cronologici (che tanto ha fatto parlare a vanvera di “ermetismo”!), ai brandelli di dialoghi (reali o immaginari) disseminati lungo le canzoni. Ascoltate un brano come Cercando un altro Egitto, giusto per fare un esempio, e confrontatelo – linguisticamente e poeticamente – con Desolation Row. I mondi – linguisticamente e poeticamente, appunto – non potrebbero essere più simili. Semmai, mancano in De Gregori – quanto meno fino a L’agnello di Dio – i numerosi riferimenti vetero e neotestamentari che Dylan utilizza a profusione. Ma è scarto tutto sommato di non eccessiva importanza.
Premesso ciò, pur sempre di un disco di cover tradotte si tratta. E di ciò dovremmo parlare. Ora, si sa che tradurre è sempre inevitabilmente tradire. Chi traduce è un perdente in partenza, perché – come ricorda Max Manfredi – “deve contrapporre il suo testo a un testo già fatto, tentando per giunta di mantenere il senso. Non può neppure stabilire le regole del gioco: […] le sue regole se le deve dare in base a uno che se l’è già date ben prima di lui”. Insomma, il traduttore deve cercare di rimanere sospeso in bilico tra contenuto e contenitore, tra significato e significante. In una canzone entrano, inoltre, in gioco anche altri fattori – rispetto, per esempio, alla narrativa – quali gli elementi ritmici e prosodici. Per non dire della rima. Tradurre dall’inglese vuol dire, poi, fare i conti anche con due ostacoli tutt’altro che semplici da superare. Da una parte il fatto che l’italiano è lingua ben più verbosa dell’anglosassone per cui il verso tradotto letteralmente rischia di “strabordare” metricamente; l’altro problema è la presenza nell’inglese di numerose parole tronche di cui non abbonda invece l’italiano.
Vediamo come Francesco De Gregori risolve questi problemi: prima di tutto egli entra nel testo originale, cercando di capire il senso ultimo di ogni strofa e non di ogni verso o distico. Ciò gli permette di prendersi la libertà di alternare a piacimento i singoli versi (in particolare molte volte il terzo di Dylan diventa il suo secondo) o, addirittura di mescolarli; inoltre tale espediente gli consente anche di mantenere una struttura rimica coerente con l’originale. Alle volte sembra quasi divertirsi a farsi seguire in un gioco di continui rimandi: se, per esempio, in Come il giorno (I shall be released) traduce ‘riflesso’ in ‘specchio’ in Mondo politico (Political world) fa esattamente il contrario trasformando ‘specchio’ (“Life is in mirrors” [“la vita è negli specchi]) in ‘riflesso’: “La vita è un riflesso”.
Per superare, invece, il problema della maggiore verbosità dell’italiano, De Gregori lavora per ellissi, per sottrazione. Vediamo un esempio, tra i tanti, tratto da Un angioletto come te (Sweetheart like you): l’originale “In order to deal in this game, got to make the queen disappear/ It’s done with a flick of the wrist” [“Per distribuire questa mano di carte è stata fatta sparire la regina/ È stato fatto con un rapido movimento del polso”] diventa “Ma la regina di cuori deve uscire dal tavolo, è facile/prima c’era ed adesso non c’è”. Via la distribuzione delle carte, via il gioco del polso: tutto è semplicemente evocato (nel più classico stile degregoriano). Per quanto concernere il problema, invece, dei versi tronchi e delle rime, il cantautore romano si serve da una parte dell’anastrofe (vale a dire dell’inversione dell’ordine abituale delle parole) dall’altra attinge a piene mani dal non troppo vasto repertorio italiano delle parole monosillabiche. Anche in questo caso, come esempio, ci serviremo di Un angioletto come te: l’originale “What’s a sweetheart like you doin’ in a dump like this?” [“Cosa ci fa una dolcezza come te, in un immondezzaio simile?”] vede invertiti i termini in “Ma che ci fa in un posto simile, un angioletto come te?”. Certo, il rischio è quello di abusare di tali monosillabi e di cadere in una sorta di tardo “vascorossismo”. Ma è anche vero che solo in questo modo si può rendere il ritmo della lingua anglosassone. Per non dire, poi, che spesso tale uso è davvero sapiente. Si prenda il verso finale di ogni strofa di Not dark yet: “It’s not dark yet, but it’s getting there”. Chi scrive avrebbe tradotto senza troppi problemi con “Non è buio ancora, ma presto lo sarà”. Non De Gregori, che lo trasforma in “Non è buio ancora, ma lo sarà tra un po’” che ha davvero tutt’altra musicalità con quel ritmo franto dato dalla raffica di ossitoni (ma-lo-sarà-tra-un-po’).
Da un punto di vista contenutistico non mancano piccoli interventi per attualizzare i brani o per “italianizzarli”. Accade, per esempio, in Servire qualcuno (Gotta serve somebody) in cui si parla di tangenti e case circondariali. C’è chi ha, poi, bonariamente rimproverato a De Gregori di essersi autocitato in due canzoni. In Un angioletto come te, infatti, canta: “Vorranno tutti sapere qualcosa e se è stato difficile/camminare sui pezzi di vetro e ritrovarsi qua”. Ma, attenzione, è proprio Dylan a parlare di “vetri rotti”: “You can be known as the most beautiful woman/ Who ever crawled across cut glass to make a deal” [“Puoi essere conosciuta come la donna più bella/ che abbia mai strisciato su vetri rotti per fare un accordo”]. In Servire qualcuno, invece, De Gregori canta un po’ ammiccante: “Puoi chiamarmi Ciccio, puoi chiamarmi Generale”, ma anche in questo caso la scelta ci sembra assolutamente coerente dal momento che nell’originale Dylan cita se stesso: “You may call me Bobby, you may call me Zimmy” [“Puoi chiamarmi Bobby, puoi chiamarmi Zimmy”].
Interessante e felice è anche la scelta della scaletta del disco. De Gregori rifugge – grazie a Dio – le hit di Dylan, se si esclude forse I shall be released, che però hit lo è diventata nel corso del tempo, essendo stata inizialmente scartata durante le sessions dei così detti Basement tapes, che hanno dato origine poi a John Wesley Harding. Ridotte all’osso le canzoni degli anni Sessanta, Amore e furto scandaglia la produzione meno mainstream del cantautore americano. Ma non certo la minore. Perché qui troviamo davvero alcuni dei brani più importanti della produzione dylaniana. Veri gioielli quali Political world (da Oh Mercy, uno dei suoi dischi più belli); A series of dreams(inspiegabilmente esclusa proprio da Oh Mercy); Not dark yet (dallo straordinario Time out of mind) e Gotta serve somebody (dal periodo “cristiano”, uno dei più controversi di tutta la sua vita).
Vengono, poi, ripescati tre brani già a suo tempo tradotti da De Gregori. Ma se Come il giorno (I shall be released) – forse il pezzo meno riuscito dell’intero progetto – e Non dirle che non è così (If you see her, say hello) conoscono qui solo un lavoro di lima, soprattutto per ciò che concerne l’arrangiamento, rispetto alle precedenti versioni, Via della povertà(Desolation Row) subisce una radicale trasformazione se paragonata a quella cantata da De André nel 1974 nell’album Canzoni. Come risaputo, era stato proprio il giovanissimo De Gregori – parliamo, appunto, dei primi anni Settanta – ad aver passato al collega genovese la sua traduzione della canzone e questi era intervenuto di suo pugno per apportare diverse modifiche. Impossibile stabilire chi aveva scritto cosa. Ora De Gregori riprende in mano il testo originale (anche se dubitiamo che si tratti proprio di quello proposta a De André), ridonandoci una traduzione impeccabile (quella di Faber, in effetti, appariva più come una sorta di adattamento): spariscono, di conseguenza, i riferimenti al “Caporale Adolfo”; via i Re Magi e Gesù Bambino; eliminati Dottor Jeckyll e Mister Hyde; Einstein non è più un ubriacone e “Il Nettuno di Nerone” (“mattacchione” nella versione deandreiana) diviene, più coerentemente, “Nettuno Imperatore”. Ma soprattutto viene reinserita la strofa mancante in De André, quella del Dottor Sudicio (riferimento a Mengele? A Freud?), così come viene ristabilito il “giusto finale” che De André aveva completamente ribaltato: “Don’t send me no more letters no/ Not unless you mail them/ From Desolation Row” [“Non mandarmi più lettere/ a meno che tu non le spedisca/ dal vicolo della desolazione”] in Dylan, “E non mandarmi ancora tue notizie/ nessuno ti risponderà/ se insisti a spedirmi le tue lettere/ da via della Povertà” in De André, “Da ora avanti ti prego non insistere/ comincio a leggere con difficoltà/ sempre che non mi mandi le tue lettere/ da Via della Povertà” in De Gregori. Proprio Desolation Row ci permette di accennare all’aspetto più prettamente musicale di Amore e furto. De Gregori – grazie all’ottimo lavoro del suo gruppo e in particolare del Capobanda Guido Guglieminetti – ha seguito una strada quasi filologicamente corretta, restando il più possibile fedele agli arrangiamenti originali. Fanno eccezione proprio i tre pezzi sopra citati e in particolare Desolation Row che viene qui proposta in una chiave elettrica (d’altro canto proviene pur sempre da Highway 61 Revisited) e celticheggiante (grazie al violino di Elena Cirillo).
In conclusione un disco che è un vero e proprio scrigno di gioielli resi brillanti grazie a un lavoro che ha saputo coniugare umiltà, passione ma anche grande consapevolezza dei propri mezzi di songwriter. Chapeau!
P.S.: le traduzioni in italiano di Dylan sono tratte dall’imprescindibile sito www.maggiesfarm.it
Foto di Valeria Bissacco
Apparso su http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/de-gregori-canta-bob-dylan-amore-e-furto/