Sabrina Napoleone – Modir min

Una bambina che guarda – col volto che vorrebbe essere sorridente e che invece appare triste – verso il teleobiettivo, sopra un gigante disteso pietrificato nella Valle dei Templi.
Una nenia islandese – Modir min, appunto – in cui si parla di una bambina abbandonata dalla madre e che muore invocandola.

Non so se anche in musica due indizi fanno una prova. Ma ho l’impressione che il nuovo, bellissimo, CD di Sabrina Napoleonepossa essere letto come una sorta di concept album in cui la Sabrina attuale cerca di dare voce alla Sabrina bambina (che è poi quella nella foto); dilaniate entrambe da una sorta di abbandono e lontananza dall’amore e alla tenerezza “di cui tutti hanno bisogno” (per dirla alla De Gregori). Certo, il rischio di fare una lettura psicanalitica d’accatto del disco è forte. Ma è altrettanto forte l’esigenza di Napoleone di raccontare la ferita dell’essere in queste nove tracce, un dolore ontologico a cui neppure l’amore riesce a porre rimedio. Ogni disco di Sabrina Napoleone, ogni suo concerto produce un effetto un poco straniante, perché la persona Sabrina Napoleone di tutti i giorni appare totalmente diversa da quella che si mette totalmente a nudo (in maniera spesso lacerante e lacerata) sul palco. Di solito l’artista tende ad indossare la maschera quando sale sul palco, non quando vi scende. Anche in questo caso sarebbe forte la tentazione di tirare in ballo uno degli archetipi fondamentali della psicologia analitica di Jung (quello della Persona, appunto), ma cercheremo di resistere alla tentazione accennandovi solo!

In Modir Min assistiamo a un continuo sfasamento temporale come se i ricordi della Sabrina bambina chiedessero di essere visti con gli occhi della Sabrina attuale. Quella bambina ha messo, nel corso degli anni, in azione tutta una serie di stratagemmi per sopravvivere a un amore ancestrale mancante, una Resilienza che le ha permesso di sopravvivere. Ma non di vivere, probabilmente. Certo la resilienza ha avuto un effetto salvifico o quanto meno funzionale, non fosse che poi però alla fine quella bambina/donna si è ritrovata quasi “ingabbiata” in una sorta di palla di vetro (sì, proprio come quelle natalizie che a prima vista paiono così rassicuranti a chi le osserva). Ne deriva che tutta la realtà appare deformata o quanto meno devitalizzata (come nel ben noto statuto della stampa di gozzaniana memoria). La realtà non solo è deformante ma ci imprigiona in forme ben definite da cui diventa impossibile uscire (tema trattato nella splendida Creatura di rabbia in cui si spazia da riferimenti a Ben Jelloun a Montale). Tutto diventa moda e chi cerca di sfuggire alle ferree leggi della omologazione ne pagherà le conseguenze (come il povero Antonio della Ballata della moda, cover di un poco conosciuto Luigi Tenco,perché ingabbiato anche lui dai mass media nella figura di cantautore triste e depresso!).

Il fatto è che la Sabrina attuale è anche cantautrice e quindi il senso di straniamento, di non amore, di lontananza, di arrivare in ritardo (di non essere alla moda?) riguarda anche il suo mestiere di musicista. È il tema della sarcastica (fin già  dal titolo) Il business dei primati, dove vengono messe alla berlina le moderne mode pop (il povero Francesco Gabbani e la sua scimmia danzate), dance e – soprattutto – la nuova scena trap (con uno straordinario cammeo di Max Manfredi): “Il cantautore vecchia scuola canta di puttane,/ il cantautore nuova scuola canta cono gelato [riferimento a una canzone dei Dark Polo Gang]”. Come una sorta di incubo post apocalittico emerge poi nuovamente il tema della lontananza e dell’impossibilità (in questo caso sana, mi verrebbe da dire) di aderire alle mode socio-politiche del presente. Con un registratore o semplicemente col suo telefonino (e basterebbe solo il mezzo per rimarcare ancora una volta l’impossibilità di aderire alla realtà: ancora una volta la palla di vetro, insomma), Napoleone registra su un autobus il cicaleccio quotidiano delle persone comuni. Ne risulta un concentrato di razzismo di ritorno e di fiducia verso l’uomo forte che possa risolvere l’invasione straniera. In questa sorta di incubo ad occhi aperti (in cui la parola “amore” acquista valore forte), il paesaggio è dominato da guardie armate che tutto e tutti controllano. Le parole sono importanti (come ci ricordava Nanni Moretti) e non sembrano casuali, allora, la presenza di un “grande muro” (ennesimo correlativo oggettivo della distanza, della separazione) e, soprattutto degli “occhi di quei bambini”. Perché, lo abbiamo detto, Modir Min è il disco dell’infanzia perduta e deturpata. Così come sottolinea il titolo stesso, in cui L’oro in realtà deve essere letto come ‘Loro’ (e si noterà, per l’ennesima volta, l’effetto binocolo rovesciato della realtà che allontana e in cui non si può essere un ‘Noi’).

Un disco, in conclusione, che pur smorzando certi furori iconoclastici del precedente La parte migliore, conferma la cifra stilistica davvero personale della cantautrice genovese (grazie anche al preziosissimo lavoro di Giulio Gaietto al basso e agli arrangiamenti e di Marco Topini alle chitarre). Se non fosse formula un po’ trita e banale potremmo dire, un disco di grande maturità e che ci fa capire quanto certa musica non mainstream possa (debba?) continuare ad avere un suo peso artistico specifico. Almeno per chi è in grado di farlo.

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