Paolo Saporiti -Paolo Saporiti

In una scena cult del film Bianco rosso e verdone, il grande Mario Brega così si rivolge ad un impaurito Carlo Verdone: “A giovano’ sta mano po esse fero e po esse piuma”. Dove quella ‘e’ ha senz’altro valore disgiuntivo: questa mano può essere ferro o può essere piuma. È una scena che mi è venuta in mente ascoltato più volte il disco eponimo di Paolo Saporiti, il primo scritto e cantato in italiano. E non si faccia l’errore di credere che l’accostamento sia irriverente o denigrante. Tutt’altro. Però la similitudine regge solo se quella ‘e’ da disgiuntiva diventa copulativa. Perché queste bellissime 12 tracce di Saporiti sono ferro e sono piuma. Senza quasi soluzione di continuità. 12 canzoni che entrano dentro, penetrano, scavano e lasciano sempre qualcosa. Canzoni come ferro, canzoni come piuma.

Mai come questa volta si avverte che il cantautore milanese ha voluto giungere ad una sorta di assolutizzazione, giungere all’essenza stessa dell’esistere. Quanto meno del suo esistere. E, allora, l’altra caratteristica sorprendente è la totale assenza di finzione, quasi che davvero non ci fosse nessun filtro tra l’uomo Saporiti e l’artista Saporiti. Tutti i versi del cantautore – da quelli più aulici a quelli più triviali – si inverano. Si prenda a mo’ d’esempio l’incipit apparentemente incoerente e paradossale di Io non ho pietà: “Io non ho pietà nell’amarti nel senso che dedico a te ogni goccia d’amore che mi stilla dal cuore io non ho pietà nell’odiarti nel senso che dentro di me provo solo rancore per chi svende le ore”. Bene, persino la presenza della rima ‘cuore/amore’ o la costruzione della strofa a isocolon non fa apparire ciò che Saporiti canta come inautentico (anche grazie alla sua voce). Un rovesciamento, insomma, dell’assunto-Pessoa secondo cui il poeta è un fingitore.

Per certi aspetti Paolo Saporiti può anche essere letto come un concept album in cui il protagonista compie un viaggio nel suo passato per cercare, appunto, il senso ultimo del suo stare al mondo (e guarda caso proprio Come venire al mondo si intitola la prima traccia). Un percorso tortuoso che è anche, però, un viaggio – ma la cosa è per certi aspetti inevitabile – nel passato dei diversi Saporiti che hanno solcato la Terra prima di lui e, inconsapevolmente, hanno lasciato tracce che hanno poi dato origine all’attuale uomo Paolo Saporiti. Se la chiave di lettura da noi proposta è corretta, allora i due pezzi forse più importanti per capire l’intero album sonoCenere e Sangue. Due titoli che sono già rivelatori, perché i nostri antenati sono cenere (l’adagio biblico “cenere alla cenere, polvere alla polvere”) e dentro di noi scorre anche il sangue di chi ci ha preceduti. In Cenere si parla proprio di nomi che si scelgono e cognomi che invece ci sono imposti; mentre in Sangue si prospetta una separazione definitiva e traumatica (la morte di un proprio genitore? Di un fratello?): “Io non credo che ce la farei senza di te io non credo che resisterò un momento di più se trovo quelle immagini di prima che non fossi nata tu”. Siamo al centro nevralgico del disco e del viaggio-ricerca. Al centro esatto del senso ontologico dell’essere. Ed ecco che allora, per incanto, i piani cronologici si sfaldano (l’anello che non tiene di montaliana memoria) e i ricordi personali di Paolo Saporiti – che può così riappropriarsi di un vecchio brano come Erica – si confondono con quelli degli altri Saporiti (Come Hitler) o, ancora, quelli di Paolo Saporiti con i suoi avi (L’effetto indesiderato sembrerebbe sottintendere ad un difficile rapporto col paterno).

Illuminanti in questo senso sono le foto che accompagnano il cd: in copertina il bisnonno di Paolo (assomigliante in modo impressionante) con in braccio il nonno bambino (inizio 900?), e poi ancora scene della prima guerra mondiale, scene borghesi degli anni 50 e 60. Non c’è più un oggi o un ieri, non c’è più una città o una campagna (“e intanto la falce finisce sui rimpianti dei lumi in città che vorrei cominciare a saldare con la vanga che porta papà “[e si noti il verbo all’indicativo presente]) ma tutto si tiene.

È chiaro che fare i conti col proprio esistere vuol dire anche fare i conti con Dio. Saporiti sembra continuamente oscillare tra l’idea di un Dio tutto interiore da trovare, appunto, nella nostra storia (in Sangue si parla espressamente di un “centro di Dio”) a quella di un Dio più tradizionale che quasi si ha vergogna a pregare: “spiegami perché sia capitato a me di chiedere aiuto anche a Dio”.

Un disco, insomma, davvero importante che non poteva che portare un titolo eponimo, come se fosse il primo scritto da Paolo Saporiti, da questo Paolo Saporiti… e che non può, quindi, che essere cantato in italiano.

P.S.: abbiamo rispettato nelle citazioni la struttura in prosa (e quindi non divisa in versi) del booklet interno.

da http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/paolo-saporiti/

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