Francesco De Gregori. A Piedi Nudi Lungo La Strada

pp.144 – € 13 – ISBN 978 88 89702 83 3
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(Estratto dal capitolo) Che dell’amore non si butta niente…

La strada, si diceva all’inizio, è impervia e ricca di tornanti. Lungo il tragitto si incontrano uomini sopraffati e uomini sopraffattori, vittime e carnefici; alle volte ci si imbatte in semplici spettatori. Tutti mossi o schiacciati da motivazioni politiche o da interessi economici. Eppure qualcosa manca in questa descrizione, in questa analisi: manca l’amore. Troppo spesso ci si dimentica che esso ha un ruolo tutt’altro che irrilevante nel corpus degregoriano. L’amore ha una parte fondamentale nella vita dell’uomo. La frase potrebbe apparire banale, ma è al tempo stesso innegabile. Il fatto è che se ne rende conto anche De Gregori, che, infatti, ha un atteggiamento estremamente prudente nel trattare l’argomento, quasi una sorta di pudore. Inoltre, l’amore è per sua natura ambivalente. Da una parte, infatti, esso è uno dei motivi che genera il dolore che caratterizza l’umanità, dall’altra ne è, o ne può essere, il rimedio. Nel solco della nostra tradizione lirica, e più in generale di tutta la produzione letteraria sull’argomento, l’amore può essere fonte di solitudine causata dall’abbandono dell’altro: “È facile per me, pensare che eri strana/ e che te ne sei andata/ perché l’ho voluto io,/ ma dove sei stanotte, amore mio” (Sono tuo). O addirittura di follia: “Ieri, ho ammazzato la mia formica,/ diceva che ero pazzo./ Io, pazzo forse per gioco,/ ma per niente e per nessuna” (Dolce amore del Bahia); “Ricordo che giocavo coi tuoi occhi/ nella stanza e ti chiamavo ‘mia’/ ben oltre la coperta ad uncinetto,/ c’era il soffio della tua follia” (Bene). Gli amanti sono spesso assenti o lontani: “Belli capelli, capelli neri,/ che t’ho aspettato tutta notte/ e tu chissà dov’eri” (Belli capelli); “dove sarà la tua mano, dolce,/ dove sarà il tuo amore?” (Povero me). Andati via o, quantomeno, in procinto di lasciarsi: “Capelli d’oro, che sei partita/ e chi lo sa se torni” (Belli capelli); “Capo d’Africa è la voce di una donna che ci ama/ e che abbiamo abbandonato, in un grande appartamento,/ ci ha lasciati per un bacio, per uno stupido tradimento” (Capo d’Africa); “Chi di voi l’ha vista partire,/ dica pure che stracciona era […]/ la mattina che prese il treno” (Renoir). Eppure anche nella lontananza lasciano tracce di sé, del loro passaggio – forse l’unico – come la foto di lei sorridente in Rimmel:

“Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi,

se per caso avevo ancora quella foto,

in cui tu sorridevi e non guardavi

[…]

e quando io, senza capire ho detto “sì”,

hai detto: “è tutto quel che hai di me””

Che diventa forse un poco sbiadita qualche anno dopo in Caldo e scuro:

“Così mi son sentito piccolo

come un chicco di grano,
quando ho guardato la tua foto nel muro

ed ero già lontano.
Tu sorridevi a qualcuno,

qualche anno prima”.

L’amore inoltre – paradossalmente, anche quello che si realizza compiutamente – può essere un impedimento al viaggio, alla conoscenza; può portare alla dimenticanza di sé, a scatti di rabbia e miserie: “Io non ricordo che occhi avevi,/ l’ultima volta che ti ho insultato/ l’ultima volta che ti ho lasciato” (Dolce amore del Bahia) Può essere come il Canto delle sirene che ostruisce l’accesso ai naviganti. O come l’abbraccio di Calipso che avvinghia per sette anni Ulisse presso l’isola di Ogigia, rendendolo dimentico degli altri affetti e delle alte imprese a cui è destinato.

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