Giua e Armando Corsi – TrE

Riavvolgiamo il nastro della memoria: Giua che sale sul palco dell’Ariston. Festival di Sanremo, 58a edizione. Lei è sempre bellissima, eppure sembra ingabbiata in un improbabile tailleur, il brano – Tanto non scendo – funziona, eppure è anch’esso come ingabbiato in un arrangiamento troppo sanremese, appunto, commerciale… il tutto si mostra e suona troppo pop, per quella che è una delle più promettenti esponenti della nuova canzone d’autore femminile.

2012, ascoltiamo la canzone, Pop Corn, del nuovo disco (scritto a quattro mani con Armando Corsi), TrE: «Buco lo schermo/ col tacco a spillo spillo/ sono perfetta/ non mi assomiglio/ …/ io sono pop, pop corn/ come la star/ del dado Knorr». Giua canta con voce sensuale e ammaliatrice. Ovviamente siamo nel campo dell’antifrasi: mi travesto da pop per farvi vedere che io non sono pop. Il brano è un piccolo atto d’accusa allo sterile mondo del pop radiofonico-televisivo, in cui tutto viene consumato in fretta senza neppure digerire, senza neppure avere il tempo di assimilare: «E tutto subito, tutto immediato/ non voglio neanche il tempo/ di sapere cosa ho ingoiato/ e tutto subito, tutto immediato/ più veloce più furbissima per piazzarmi/ sul mercato».

Fa bene Giua a parlare di immediatezza, perché alla fine chi ci propina quella musica ci tratta alla stregua dei rettili, ci vuole in uno stato coscienziale dove non c’è mediazione tra azione e pensiero, ma solo stimolo-risposta. E “immediatezza” è un termine che sa molto di psicanalisi forse perché Giua (in barba a ciò che suggeriva Vecchioni qualche anno fa) canta con orgoglio inTotem e tabù: «Ho letto Freud/ non mi vergogno/ e ho notato una scintilla di disgusto/ in te che osservi di nascosto».

Se c’è molto poco pop in questo disco, c’è molta musica latino-americana. Con i brani di TrE Giua, insomma, sembra finalmente essersi spogliata definitivamente del tailleur sanremese ed essersi riappropriata dei suoi abiti musicali. Una sorta di rinascita artistica che non poteva che portarla alle origini, ad Armando Corsi, sorta di padre putativo (artisticamente parlando e volendo restare nel gioco di associazioni e suggestioni freudiane) che continua anche qui il suo stato di grazia (dopo lo splendido Alma).

I due sembrano divertirsi da matti ad arrampicarsi sulle corde delle chitarre classiche, alternando brani cantati – in cui si passa dal sarcasmo (Wonderwoman) al profondo lirismo e intimismo (come nella splendida Gru di palude) – a pezzi strumentali. In un continuo gioco di allusioni o chiare citazioni i due si inseguono e si fanno inseguire tra le strade del Cile (Cantarito de greda), di Cuba (Veinte años), dell’Argentina (Volver), del Burundi (Qui sul collo e sull’orecchio), ma anche di Napoli (I’ te vurria vasà) e, naturalmente, di Genova (la filastrocca in dialetto Beuga bugagna). Si in seguono e si fanno inseguire… dall’ascoltatore, certo, ma anche – anzi, soprattutto – dalla musica, il vero punto di incontro, il vero “terzo” di questo splendido lavoro.

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