Dente – Io tra di Noi

Tendenzialmente non sposta di un centimetro il giudizio che si può avere di Dente questo “Io tra di noi”, album da poco uscito e già vendutissimo su iTunes. Sembra quasi di assistere ad una pervicace voglia di non muoversi da una formula che tanto bene ha portato nel passato (il precedente “L’amore non è bello” è stato nella cinquina dei migliori album al Premio Tenco 2009). Difficile dire se si tratti di mero calcolo o – appunto – di semplice cifra stilistica. Ma Dente è questo. Prendere o lasciare. Detto per onestà che chi scrive rientra nel novero di coloro che “prendono”, è difficile riuscire a fare un’analisi serena di questo lavoro tanto è aderente al precedente, quasi si trattasse della facciata C e D. I tratti tipicamente dentiani (chissà, poi, se si dirà così) ci sono tutti. A cominciare da una sorta di minimalismo che oserei definire ontologico. Minimalismo che prima di tutto passa attraverso precise scelte di arrangiamento. Tutti i dodici pezzi che compongono l’album si reggono sulla presenza forte della chitarra acustica (in alcuni casi quasi unico strumento, come nella introduttiva “Due volte niente”), spesso riprodotta con suono “sporco” che sa molto di casereccio. Così come minimalista è anche la struttura stessa della canzone: alle volte un semplice giro di accordi ripetuto all’infinito (si senta “Io sì” in cui la variazione sul tema è data solo dal cambio di tonalità ad ogni strofa) oppure nella classica struttura strofa-ritornello. Dente ha una straordinaria capacità di aggrapparsi ad una melodia e non sembra volersene più staccare. Ma naturalmente la grande capacità sta anche nel far sì che la melodia sia quella giusta, senza troppi snobismi o arretramenti rispetto all’easy listening, facendo così suo l’insegnamento in particolare di Lucio Battisti (ma di questo si dirà oltre). Minimaliste, infine, sono le storie che Dente racconta. Di fatto ci troviamo di fronte ad un vero e proprio monotematismo: l’amore. Piccole storie quotidiane che si dipanano nella Brianza tra Milano e zone limitrofe (“Dal casello di Varese/ dritto nel tuo letto/al tuo paese/ alle due di mattino” in “Da Varese a quel paese”). Non c’è praticamente pezzo in cui Dente non ci racconti di una ragazza (quanto poi reale, immaginata o sognata non è dato di sapere). Si diceva prima della grande facilità melodica che attraversa quasi tutti i pezzi, non vi è dubbio che Dente sotto questo punto di vista ritrovi dei veri e propri punti di riferimento nella canzone italiana degli anni Settanta, su tutti Rino Gaetano (quello di “Cogli la mia rosa d’amore”, per intenderci) e, soprattutto, Lucio Battisti… basti, in questo senso, ascoltare l’incipit di “Io sì” (titolo oltretutto tenchiano), il cui duo basso-chitarra ricorda pericolosamente “Dove arriva quel cespuglio” o la lunghissima coda della splendida “Rette parallele” molto vicina ad “Anima latina”.

Un’ultima annotazione, infine, sui testi. Da questo punto di vista Dente abbandona deciso il minimalismo per giungere a costruzioni al limite del virtuosismo (d’altronde basta dare una scorta ai titoli dei suoi album: “Non c’è due senza te”, “L’amore non è bello”) con calembour e giochi di parole, allitterazioni e assonanze che raramente sono sterili virtuosismi, ma anzi obbligano l’ascoltatore a stare al gioco, a cercare significati nascosti nel significante. Illuminante, in questo senso, il titolo e il testo de “La settimana enigmatica” dove il nome Irene (l’ennesima Irene della sua produzione, dopo “La presunta cecità di Irene” e “La presunta santità di Irene”) è celato perfettamente nel ritornello: (“I re ne vogliono di più semplici). O, ancora, “Rette parallele” tutta giocata su un classico periodare ipotetico: “Se noi fossimo dei semafori/ io sarei vicino a te:/ quando mi spengo io ti accendi tu/… / Se noi fossimo dei vetri elettrici/ io viaggerei di fianco a te:/ quando mi alzo io ti abbassi tu”. All’apparenza una canzone che sembra prospettare un lieto fine; sogno che viene stroncato proprio sul finire con uno splendido colpo ad effetto: “Se noi fossimo dei petali/ io sarei dopo di te:/ quando sono ‘m’ama’ io sei ‘non m’ama tu/… / Io sono il lungo inverno/ e tu la bella estate/ siamo rette parallele”. Due rette parallele… che, con buona pace di Giulio Andreotti, sono costrette a non incontrarsi mai.

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