Ivano Fossati – Decadencing

È un malinconico addio quello di Ivano Fossati, quello del suo ultimo cd Decadancing. Malinconico tanto per i temi trattati (la decadenza dell’Italia, la nuova emigrazione dei nostri giovani, amori finiti, appassiti o monotoni, tradimenti…). Ma malinconico, soprattutto, per il risultato finale. Chi scrive si aspettava un canto del cigno, uno scatto di reni dopo i deludenti L’arcangelo e Musica moderna e invece Decadancing sembra confermare una china forse inevitabile. Probabilmente è anche per questo, per una sorta di coerenza – come avesse anche lui compreso che non sempre si possono scrivere capolavori – che Fossati dice addio ai contratti discografici, agli impegni editoriali.

Che ci fosse da stare poco tranquilli si era capito già dall’uscita del singolo di lancio, quella Decadenza che aveva creato un tam tam di pareri negativi sul web da parte dei suoi estimatori. E, in effetti, La decadenza (mai titolo fu tanto appropriato) non solo è una canzone bruttina tanto nell’impostazione musicale che testuale, ma presenta un arrangiamento al limite dell’imbarazzante con quel riff chitarristico (pericolosamente vicino a Born to be alive) e coretto in francese che sa tanto di anni Ottanta.

Le cose sembrerebbero andare meglio dalla seconda traccia: Quello che manca al mondo inizia bene con un’ottima intro (anche grazie a un bel grappolo di note al piano), ma poi sembra incocciare contro un muro e non va da nessuna parte, come se non trovasse lo spazio giusto per innalzarsi.

Decisamente meglio La sconosciuta, certo qui ci aggiriamo su sonorità pop che potrebbero far storcere il naso, ma il risultato è comunque fresco e brillante. Una canzone d’amore tipica di Fossati, fatta di assenze e presenze, allusioni, attese e disillusioni. È il prodromo al primo vero brano da ricordare dell’intero album, un piccolo gioiello, Settembre. Appena Fossati lascia la chitarra e si mette al pianoforte tutto acquista un altro sapore, persino la voce sembra ritornare quella di un tempo. Settembre è un’altra canzone su di un amore estivo che rischia di svanire alle prime luci di settembre, appunto. Ancora una volta una storia di addii (che forse non saranno tali), di promesse e false attese. La normalità riporta tutti sulla terra, le pennate della chitarra acustica sembrano dirci che la magia precedente è terminata… siamo alla normalità, appunto. Sonorità pop anche in Laura e l’avvenire (che ricorda vagamente Il rimedio) che però presenta un tema decisamente interessante: la fuga di due giovani italiani costretti a lasciare il nostro paese dopo aver perso il lavoro. Dopo aver tanto cantato, insomma, l’immigrazione Fossati si fa portavoce della crisi economica (ma anche culturale e sociale) che ha investito il nostro paese: “Ora questo posto non fa più per noi/ questo è un deserto di democrazia/ ora che la fabbrica chiude tutti se ne andranno/ lasciamo libera la scena anche noi,/ vieni”.

Problema che non sembrano porsi i due sposi protagonisti di Natale borghese, la routine della vita di copia diventa paradossalmente scudo contro i tormenti della vita: “Noi vediamo bene di non preoccuparci/ se qualche dio lontano ci lega a questi brutti anni/ che buio disprezzabile è la politica/ non vale neanche il giornale del mese prima”. Il problema è che di “borghese” non c’è solo la loro vita, ma anche la canzone stessa… uno dei punti più bassi del disco. Ma chissà forse si trova lì proprio per dare ancora maggiore risalto al vero capolavoro del disco, La terra del vento (che poi è la terra greca da cui è tratta la foto di copertina). L’abbiamo già detto prima, il cantautore si mette al piano e tutto cambia colore. Un piccolo gioiello che più fossatiano non potrebbe essere; la voce sembra accarezzare le note e le note avvolgere la voce. La Terra del vento è uno dei tanti Altrove cantati da Fossati in questi anni, una Terra sganciata dal grigiore e dalla meschinità della quotidianità. Una canzone che fa dimenticare tutto, che ferma il tempo.

Ma dalla Terra del vento si deve pur tornare. E allora ecco di nuovo le piccole storie che fanno – come un gigantesco puzzle – la nostra vita. Se non oggi è una piccola storia di un tradimento. Tradimento forse immaginato, aspettato, “Se non oggi decidi tu quando”, appunto. E come tutti i tradimenti da tenere nascosto “come una bestemmia nascosta in fondo al messale”, colpo di teatro – linguisticamente parlando – bellissimo che fa perdonare il successivo “Solo Gesù saprà quello che abbiamo fatto”. E arriviamo così al commiato finale. Fossati, per fortuna, torna al piano. Tutto questo futuro non eguaglia Settembre e La terra del vento, ma è un pezzo di congedo delicato e bellissimo. Si ha la sensazione che solo lui riesca a parlare d’amore con frasi semplici senza cadere (quasi) mai nella banalità. Il testo, brevissimo, è tutto da incorniciare: “Io e te, in mezzo al mondo siamo un pugno di fiori/ ora passa la notte e, come senti, non piove più”.

Ora tutto il futuro aspetta Fossati. Ci sarà l’ultima tournée, ci saranno altre comparsate, ma sappiamo già che ci mancherà terribilmente quel suo trascinare le vocali, quel riferimento al mare, quell’attesa febbrile di un nuovo disco… sì, lo sappiamo, è tutta musica leggera, alla fine, ma qualcuno la dovrà pur cantare.

E sentirla cantare da Fossati era davvero tutto un’altra cosa.

 

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