Antonio Lombardi – Raità

La neve in Liguria è una rarità. Una rarità labile, presta ad essere spazzata via da una folata di vento. Un rarità in bilico tra bufera e nevischio. La neve è tanto inusuale quanto magica; è ritorno all’infanzia, al paradiso perduto di un ancestrale passato. La neve è silenzio ovattato, strade deserte, scuole chiuse. Ma la neve è anche freddo e gelo. Morte in agguato per animali e senzatetto, per tutti coloro che non hanno da ripararsi.

Ci sono dischi che sono come la neve in Liguria: rari e fragili, da preservare. Uno di questi è il bellissimo Raità di Antonio Lombardi (vincitore del premio Lerici Pea 2009). Un lavoro scritto di getto, in una sorta di impeto e rapimento creativo. Una vera e propria urgenza (nato in due giorni proprio mentre Lombardi stava ultimando un altro disco: L’uomo che ascoltava le formiche). Un disco pensato per “sottrazione”: solo chitarra acustica e la straordinaria partitura dei Gnu Quartet. Un disco sospeso – proprio come la neve – tra ritorno ad un eden perduto per sempre (il giardino dell’infanzia, il piccolo mondo antico del villaggio natio) e il dolore di uccelli cadenti dagli alberi, stramazzati dal freddo (Entrando); di gatti che vanno a morire da soli (Minòn); di funerali così nebbiosi che persino i portatori della bara non si vedono tra loro (Letanìa). Un disco che è, soprattutto, un caldo e commosso omaggio ad un amico-poeta. Lombardi ha infatti musicato le liriche dialettali (di La Serra, piccolo paese collinare alle spalle di Lerici) di Paolo Bertolani. Bertolani è un poeta vero, autentico. Ci troviamo di fronte ad uno di quei casi, insomma, in cui il testo nasce prima della musica. Anzi nasce senza intenzione di essere musicato. E anche in questo risiede uno dei piccoli miracoli di Raità: spesso tali operazioni portano ad esiti fallimentari perché il testo poetico ha già una sua musica insita, il musicista rischia di sovrapporre musica a musica. Di ottenere insomma una sorta di ridondanza fastidiosa. E qui sta, invece, la bravura di Lombardi che ha saputo perfettamente cogliere la musicalità della parola dialettale e trasformarla in musicalità della nota. Già, ma che dialetto è quello di Bertolani?

Pietro Pancrazi avvertiva che esiste una profonda differenza tra poesia dialettale (che è più folclore, descrizione di un ambiente esterno) e poesia in dialetto (che è ricerca di una lingua espressiva, di un suono). La poesia di Bertolani riesce nell’intento di avvicinare questi due poli. Se da una parte, infatti, le liriche sono pensate per dare voce ad un preciso “popolo” che usa tale lingua e quindi meglio vi si può rispecchiare e riconoscere, dall’altro proprio perché tale “popolo” è assolutamente minoritario il dialetto risulta una lingua pura, vergine lontana mille miglia da quella nazionale ormai omologata dai mass-media. Ma lontana anche da quella per certi versi ormai codificata del De André di Crêuza de mä (inevitabile raffronto quando si parla di un disco in dialetto, ancor più quando questo dialetto è poi ligure), che pure si era “inventato” per certi aspetti un genovese del tutto mentale. Una lingua, insomma, quella di Bertolani (e così bene ripresa da Lombardi) dell’oralità e delle piccole cose (in questo senso vicino alla grande poesia di Attilio Bertolucci) che viene elevata a lingua scritta e letteraria.

Insomma, proprio come la neve in Liguria, Raità è disco di congiunzione degli opposti: luce e ombra, poesia e prosaicità, passato e presente. Come nella bellissima I masse ‘r porco (‘ammazzano il maiale’) è una festa a cui tutto il paese partecipa, una festa che porterà insaccati e sanguinaccio. Ma anche una festa di sangue in cui le grida del porco “ti portano via le orecchie”. Una festa che poi altro non è che allegoria della vita stessa, in perenne equilibrio tra felicità e dolore, tra senso del tutto e assurdo del nulla.

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